C'è una fiamma che rischia di bruciare la carriera politica di Giorgia Meloni. Quella fiamma missina - ben presente sul simbolo di Fratelli d'Italia - che rappresenta molto più di un'eredità politica ideale: è un orizzonte vivo per una parte di destra italiana. Anzi, «presente», come urlava quel manipolo di fascisti radunati il 7 gennaio in via Acca Larenzia, a Roma, con tanto di braccia tese e allineamento paramilitare, per commemorare Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni, tre militanti del Fronte della Gioventù barbaramente assassinati 46 anni fa da un commando di estrema sinistra (i primi due) e dalle forze dell'ordine (il terzo).

Che la premier non abbia nulla a che fare con quel branco di esaltati è evidente. Non lo è altrettanto però sostenere che Fd'I - l'organizzazione di Meloni erede di quella di Almirante - sia totalmente estranea e impermeabile a certi riflessi “nostalgici”, come testimoniato dalla lunga serie di gaffe e scivoloni registrati solo nell'ultimo anno da compagni di partito e referenti d'area della sorella d'Italia.

In principio fu Claudio Anastasio, presidente di 3-I spa, società per lo sviluppo di software interamente a capitale e partecipazione pubblica, nominato da Meloni alla guida della partecipata nel dicembre 2022. Dura poco in sella: tre mesi, il tempo di inviare a tutti i membri del cda un'email con un discorso del duce riadattato alle “esigenze aziendali”. «Ebbene, io dichiaro qui, al cospetto di Voi, ed al cospetto di tutto il governo italiano, che assumo (io solo!) la responsabilità di 3-I (politica! morale! storica!) di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se 3-I è stata una mia colpa, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho alimentato nel mio ruolo», scrive Anastasio, prendendo in prestito le parole che Mussolini pronunciò in Parlamento dopo l'omicidio Matteotti. L'email, ovviamente, diventa pubblica in poche ore e l'uomo piazzato da Meloni deve fare le valigie. È la metà di marzo 2023.

Passano due settimane scarse e ad attirare su di sé l'attenzione è nientepopodimeno che il presidente del Senato Ignazio La Russa. «L'attentato di via Rasella non è stata una delle pagine più gloriose della Resistenza partigiana», dice a Libero la seconda carica dello Stato, «quelli che i partigiani hanno ucciso non erano biechi nazisti delle SS ma una banda musicale di semipensionati, altoatesini (in quel momento mezzi tedeschi, mezzi italiani), sapendo benissimo il rischio di rappresaglia al quale esponevano i cittadini romani, antifascisti e non». La prevedibilissima polemica esplode in pochi secondi, ma La Russa non molla: «Confermo parola per parola», dice il presidente del Senato col busto del duce in casa (poi trasferito nell’abitazione della sorella), prima di chiedere ufficialmente scusa.

Non sono le uniche parole uscite fuori dal senno di questo o quel fratello d’Italia, l’elenco potrebbe proseguire a lungo, basti pensare alla «sostituzione etnica» evocata dal ministro Francesco Lollobrigida. Ma questi due esempi eclatanti bastano a spiegare perché il partito di Meloni non può dirsi del tutto estraneo a manifestazioni dal cattivo gusto nostalgico. E anche se all’orizzonte non c’è nessun pericolo fascista da scongiurare, due paroline della premier sullo scempio andato in scena ad Acca Larenzia non avrebbero fatto male. Per fare chiarezza e scrollarsi di dosso, una volta, per tutte quelle scorie di un passato che di certo non le appartiene.