Nel 2013 fecero notizia gli scatoloni di Giorgio Napolitano, che li ostentava orgogliosamente, ma ancora di più la moglie, agli amici che andavano a trovarlo al Quirinale per esortarlo a lasciarsi ricandidare alla fine del suo mandato. Lui, già infastidito da quel ' Re Giorgio' che gli davano più o meno affettuosamente i giornali italiani e stranieri, aveva diffuso note e lettere per spiegare come ritenesse anche troppi i sette anni del mandato prescritti dalla Costituzione. E la moglie aggiungeva, di suo, che anche dell’età e della salute del marito bisognasse avere rispetto. Quando qualcuno osava insistere, il presidente lo accompagnava in un ambiente vicino allo studio per mostrare altri scatoloni ancora e dimostrare così come ormai fosse ' materialmente' impossibile ripensarci.

Alcuni scatoloni peraltro erano già stati mandati a Palazzo Giustiniani, dove i suoi collaboratori, ma pare anche lui stesso, avevano già preso visione degli uffici destinatagli come senatore di diritto e a vita.

Ad un certo punto non s’impantanò, dopo le elezioni politiche e l’avvio della diciassettesima legislatura - il cui numero già aveva messo in ansia l’inquilino del Quirinale da buon napoletano soltanto la crisi di governo. Che quel capoccione di Pier Luigi Bersani si ostinava a voler far chiudere con una soluzione minoritaria, appesa agli umori, cioè ai malumori, di Beppe Grillo. Cosa che toglieva letteralmente il sonno a Napolitano, costretto ad un certo punto a congelare la crisi per affidarne la prosecuzione al successore.

Quel capoccione, sempre lui, di Bersani non riuscì come segretario del maggiore partito rappresentato in Parlamento neppure a fare eleggere i due candidati messi in campo per la successione a Napolitano: prima lo stesso presidente del Pd, ed ex presidente del Senato Franco Marini, e poi Romano Prodi, rimasto prudentemente all’estero per risparmiarsi un’arrabbiatura delle sue a casa.

Per ' Re Giorgio' non ci fu allora scampo. Dovette arrendersi alla processione dei segretari di partito, governatori regionali, sindaci, amici veri o presunti, ed accettare di farsi rieleggere. Egli dovette personalmente rimettere mano in almeno alcuni degli scatoloni del trasloco per disfarli. Altri addirittura dovettero essere riportati da casa al Quirinale.

In questa crisi, per fortuna tutta politica e per niente istituzionale, essendo Sergio Mattarella solo al secondo dei suoi sette anni di mandato, gli scatoloni che hanno fatto notizia sono quelli di Matteo Renzi: una quindicina di varia grandezza, mormorano i commessi di Palazzo Chigi. Scatoloni che Renzi in persona ha in gran parte riempito quasi con voluttà, immaginando di deporre ogni cosa quasi avvolta in un manifesto di Beppe Grillo, come per fargli vedere di che pasta fosse davvero l’uomo che lui aveva mandato a quel posto, con disprezzo, in tante piazze d’Italia. Di quegli scatoloni, una volta svuotati nella sua villetta di Pontassieve, chissà cosa deciderà di fare l’immaginifico ' taverniere di Predappio' come Renzi è stato addirittura sentito definire a Montecitorio prima e durante la campagna referendaria da un fedele, anzi da un devoto amico di Massimo D’Alema.

Gli scatoloni di Renzi hanno resistito nei pochi giorni trascorsi fra l’annuncio delle dimissioni, quando ancora i risultati del referendum costituzionale e le dimensioni precise della sconfitta non erano ancora definitivi, e l’incarico a Paolo Gentiloni, ad ogni tipo di pressione. A cominciare da quella di Mattarella, spesosi sino all’ultimo perché il dimissionario accettasse un reincarico, rinunciando a inseguire Grillo sulla strada delle teste da far rotolare, anche quando questa diventa la propria.

È un inseguimento, questo di Grillo, che anche Napolitano, a dire il vero, ha rimproverato a Renzi durante la campagna referendaria, quando si è pubblicamente doluto che la riforma costituzionale fosse sostenuta più per la riduzione dei senatori e i risparmi, piccoli o piccolissimi che fossero, che per la semplificazione che poteva introdurre nella produzione delle leggi e la maggiore efficienza che poteva garantire al sistema. Corre voce che, sconsolato per non essere riuscito a smuoverlo lui, Mattarella abbia chiesto una mano al comune e autorevole amico Eugenio Scalfari. Che il suo contributo, per quanto inutile, lo ha dato con l’articolo domenicale su Repubblica. In cui, non so se dopo avergli parlato, fra una telefonata e l’altra a Papa Francesco, Barpapà ha dissentito dagli scatoloni e dal trasloco e ha rimandato Renzi a scuola per studiare meglio Cavour e Garibaldi, imparando dall’uno l’arte del governo e dall’altro quella della rivoluzione.

Ma temo che Renzi non troverà il tempo per tornare a studiare, avendo deciso di avventurarsi sulla strada non priva di coraggio, ma neppure di rischi, del congresso anticipato del partito, a ridosso delle elezioni anch’esse anticipate, cui egli spera di arrivare entro giugno con l’aiuto combinato di Gentiloni e di Mattarella, alla ricerca di una rapida ' armonizzazione' delle regole, come l’ha chiamata lo stesso presidente della Repubblica. Vasto programma, avrebbe detto il generale De Gaulle.

FRANCESCO DAMATO