Il tempo delle riforme, anzi della riforma presidenzialista, per Giorgia Meloni è ora. Il percorso lo ha indicato nella conferenza stampa di fine anno: adesso si tratta di passare ai fatti. Il passo decisivo sarà l'incontro fra la ministra Elisabetta Casellati e i partiti d'opposizione. L'offerta della premier al Pd è già nota e pubblicamente esplicitata: la disponibilità a partire da quel semipresidenzialismo francese che era il modello preferito dall'allora Pds ai tempi della bicamerale D'Alema. Sembra una mission impossible, data la scelta intransigente del Pd, ma la premier ci spera lo stesso.

Proprio in questa direzione avevano marciato per un po' lei e Letta, poi il disastro di luglio ha spinto il Pd su una linea opposta ma non è detto che le cose non possano cambiare col cambio di segreteria. Sulla disponibilità almeno al dialogo del Terzo Polo non ci sono dubbi, sulla assoluta indisponibilità dei 5S quasi neppure. La scelta del Pd sarà quindi determinante. Con due forze d'opposizione su tre pronte a discutere su diverse formule presidenzialiste la premier sceglierà la via parlamentare, forse una bicamerale, più probabilmente uno strumento diverso come le commissioni Affari costituzionali congiunte delle due Camere.

Ma se invece potrà contare solo sul sì di Renzi e Calenda molto difficilmente la leader della destra si inoltrerà in un percorso parlamentare che Pd e 5S trasformerebbero in una via crucis, dilatando i tempo a dismisura e soprattutto spostando l'asse del dibattito pubblico dalla riforma in sé a una sfida pregiudiziale tra destra e sinistra combattuta sotto il sacro vessillo della Costituzione. È vero che, salvo disponibilità del prossimo segretario del Pd, in quella sorta di guerra santa la presidente si troverà impelagata comunque.

Almeno però senza regalare alla controparte una grancassa fragorosa come sarebbe la bicamerale. La strada maestra, senza Pd, sarebbe quindi quella di una proposta di riforma presentata direttamente dal governo, previe trattative serrate almeno con il Terzo Polo prima della pausa estiva, cioè nell'arco di 6 o 7 mesi.

Il guaio più grosso sarebbe però non la riforma in sé quanto il prezzo da pagare alla Lega per la sua approvazione: il contestuale varo dell'autonomia differenziata. Quella è una giungla molto più densa di pericoli dello stesso presidenzialismo: l'opposizione avrebbe gioco facilissimo nell'accusare il governo di sacrificare il Sud sull'altare delle alleanze, lo stesso elettorato meridionale di FdI, che è pur sempre quello più fidelizzato, potrebbe prenderla malissimo e soprattutto, essendo in ballo un principio costituzionale guida come la necessità di garantire l'uguaglianza dell'intero Paese e anzi di abbattere gli ostacoli all'uguaglianza stessa, il capo dello Stato non starebbe a guardare e nel discorso di fine anno lo ha fatto intendere molto chiaramente.

Non c'è da stupirsi dunque se le voci di palazzo parlano di una Meloni più fredda che tiepida nei confronti dell'autonomia differenziata. Solo che su quel punto Salvini non vuole né può arrendersi perché per i potentati del Nord che sono tornati a essere l'azionista di maggioranza del Carroccio quella è la sola posta in gioco davvero importante. In più la partita è in mano a uno dei pochi politici italiani che in questo tipo di giochi sia un maestro, Roberto Calderoli. La sua intenzione è anticipare i tempi dell'autonomia rispetto a quelli, necessariamente lunghi, della riforma presidenzialista.

Una mossa che, a fronte delle crescenti resistenze della premier, somiglia molto a un rilancio. Anche in questo caso, molto dipende dal Pd. Va da sé che, senza la possibilità di varare una riforma condivisa, il peso specifico e il potere di interdizione della Lega aumenterebbe di moltissimo mentre, con due terzi dell'opposizione decisi a concordare la riforma, scemerebbe inevitabilmente.

Per Giorgia la mossa d'apertura della partita delle riforme, la conquista o meno del dialogo con il Nazareno, è dunque decisiva o almeno destinata a condizionare l'intero percorso.

Secondo ogni logica, dunque, dovrebbe aspettare la nomina e l'insediamento reale di un nuovo segretario la cui disponibilità, a congresso concluso, potrebbe dimostrarsi diversa da quella, oggi inesistente, della leadership uscente.