Il referendum sulla Riforma costituzionale non sarà sul premierato e neppure sulla confusa formula adottata dalla destra nella sua proposta nel vano tentativo di quadrare il cerchio: il referendum sarà sul presidente della Repubblica. L'opposizione ha tutto l'interesse a metterla in questo modo: gli italiani tengono al ruolo di garante del Capo dello Stato e sono affezionati alla figura, un po' da nonno della Repubblica, comunque visto come al di sopra delle parti anche se non si può dire che tutti gli inquilini del Quirinale, a differenza di quello attuale che lo è davvero. Brandire l'argomento del “leso Colle” è l'unica arma che l'opposizione ha per contrastare la carta, indiscutibilmente forte, che giocherà Giorgia Meloni ponendo gli elettori di fronte alla scelta tra decidere loro chi dovrà governarli o delegare il compito alle segreterie dei partiti.

Dal punto di vista della premier, dunque, il presidente del Senato Ignazio La Russa ha perso l'ennesima occasione per tacere. Non perché si sia permesso di attaccare il capo dello Stato, accusa tirata per i capelli dall'opposizione che degenera nel ridicolo quando il leader dei Verdi Bonelli chiede per questo le dimissioni del secondo cittadino dello Stato. Il problema, piuttosto, è che La Russa ha detto la verità, o ci è andato molto vicino. Ha affermato che la riforma, formalmente, non tocca il poteri del presidente e non è del tutto vero. Sulla carta il capo dello Stato perde solo la facoltà di nominare il premier, attributo in teoria essenziale e nella realtà pochissimo significativo. Poi però il presidente del Senato ha aggiunto che sul piano della Costituzione materiale, cioè nella realtà dei fatti, il ruolo del primo cittadino verrà ridimensionato eccome.

La giustificazione del presidente del Senato è che appunto la Costituzione materiale avrebbe finito per attribuire al Colle «poteri più ampi di quelli che in origine la Carta prevedeva» e anche questa è una tesi discutibile dal momento che per moltissimi costituzionalisti i poteri del presidente sono “a fisarmonica”, cioè si allargano o si restringono a seconda della forza dei partiti. Durante i mandati di Giorgio Napolitano si era in effetti determinata una costellazione che sommava la massima debolezza dei partiti a un presidente decisionista al massimo grado: la conseguenza è stata che quell'ampliamento dei poteri del Colle si era senza dubbio verificato davvero.

Ma queste sono diatribe accademiche: il dato di fatto è che La Russa si è mosso sul terreno più gradito ai nemici della riforma, a quello che sarà il fronte del no. Se lo abbia fatto per imprudenza o per calcolo è incerto: di sicuro ha affibbiato alla riforma un paio di mazzate coi fiocchi. È evidente che al presidente del Senato il pasticcio del “secondo premier”, non eletto direttamente ma molto più forte del primo, non piace affatto e in realtà non piace a nessuno. È frutto di un compromesso con Salvini, che non vuole un premier troppo forte, e del calcolo per cui altrimenti l'opposizione avrebbe potuto far leva proprio sulla diminuzione dei poteri del capo dello Stato: lo stesso calcolo che sconsiglia a Giorgia quella modifica della riforma, eliminando la clausola confusionaria, che invece La Russa auspica. Dal momento che il tentativo di evitare una campagna elettorale tutta centrata sul ruolo e i poteri del garante è già fallito non è detto che la premier non ci ripensi.

Ma a conti fatti il problema non è questo: è proprio la prospettiva di una simile campagna elettorale. Il ridimensionamento dei poteri del presidente, checché ne dicano Meloni e l'intera maggioranza ( salvo La Russa) è indiscutibile e inevitabile, anche se molto dipenderà da come verrà modificato e chiarito il passaggio sul “secondo premier”. Il capo dello Stato, comunque, manterrà un ruolo essenziale: il Parlamento invece no. La riforma non spiana il Colle: in compenso riduce a entità consultiva il Parlamento. Ieri c'era qualcosa di surreale o di beffardo nell'ascoltare il ministro Crosetto che ricordava come in questa Repubblica il potere legislativo sia del Parlamento, non dell'Esecutivo o della magistratura, proprio mentre il suo governo si accinge a cancellare il ruolo appunto del Parlamento.

Non è un'operazione iniziata con questa riforma: ci hanno messo mano con buona lena tutti i governi di destra, di sinistra e tecnici. Ma la riforma Meloni è il colpo di grazia e con la dovuta discrezione anche dal Quirinale segnalano che il problema centrale è proprio questo. La questione però è di quelle che a nessuno conviene tirare in ballo, tanto meno all'opposizione: non solo perché una campagna in difesa del Parlamento è considerata perdente in partenza ma anche perché in caso contrario si dovrebbe discutere di come restituire al Parlamento il proprio ruolo, in caso di vittoria dei No, o di come renderlo davvero un contrappeso, come negli Usa, in caso di vittoria dei Sì. Ma di restituire o di assegnare un ruolo reale al Parlamento nessuno ha voglia o intenzione. Neppure i paladini della Repubblica parlamentare.