La «madre di tutte le riforme», per usare la definizione della presidente del Consiglio, è stata infine licenziata dal governo ieri. All’unanimità: Palazzo Chigi ha fatto filtrare la notizia mentre il Consiglio dei ministri era ancora in corso. Tutte le indiscrezioni della vigilia sono confermate, la novità è semmai che Meloni alla stampa poi non annuncia il “premierato all’italiana”: annuncia l’ «elezione diretta del capo del governo». Una formula precisa, una formula che mai i costituenti usarono nello scrivere la Costituzione repubblicana, chissà, forse perché molto in voga nel Ventennio mussoliniano.

Le indiscrezioni della vigilia sono tutte confermate, con una non piccola novità: in conferenza stampa, la ministra per le Riforme Elisabetta Casellati ha alluso alla legge elettorale, cui bisognerà por mano, per sostenere che l’annunciato premio di maggioranza che porterebbe al 55 per cento la forza parlamentare del «capo del governo» forse verrà ampliata, «e non di poco». Il plebiscito, insomma, non basta.

Dunque, si propone l’elezione a suffragio universale diretto del capo del governo, da votarsi con scheda unica contestualmente ai membri del Parlamento, e per «mettere fine ai ribaltoni e al trasformismo» in caso di crisi il premier potrà essere cambiato solo con un parlamentare della sua stessa maggioranza. Cose che, come notato anche su queste colonne, non esistono in nessuna democrazia al mondo: in conferenza stampa ieri la ministra Casellati ha protestato che non è vero, per un 3- 4 anni all’inizio dei Duemila un paese col premier eletto direttamente c’è stato, in Israele, e chissà se aiuta citare di questi tempi proprio quella democrazia.

Meloni ha spiegato che anche nel caso - che lei considera comunque remoto - in cui il premier eletto venisse sostituito in corsa, il successore sarebbe comunque vincolato al programma del presidente del Consiglio eletto. È quello che i cronisti chiamano la “costituzionalizzazione del programma elettorale”, una formulazione che suona ironica e sembra un ossimoro, perché ovviamente le scelte politiche alle quali la realtà e le oggettive condizioni politiche costringono i governi non possono essere scritte come su lapidi di marmo. E, quando un giornalista glielo fa presente, Meloni risponde che l’importante è che «non si cambi visione nel quinquennio». Nessuno le chiede della palese contraddizione di riscrivere l’attuale Costituzione per «dare voce al popolo che potrà eleggere direttamente il capo del governo» quando poi alla prima crisi potrà essere sostituito da un collega di coalizione per il quale “il popolo” non ha votato. Sembra sfuggire alla presidente del Consiglio che quella che lei chiama «norma antiribaltone» è semmai un tipico bilanciamento da sistema parlamentare, non da “premierato”, sia pure all’italiana: l’elezione diretta in Italia esiste per sindaci e presidenti di Regione. Per sostituire i quali non si passa la poltrona al vice: si torna alle elezioni.

Si può solo immaginare come abbiano preso al Colle il passaggio in cui, per spiegare la necessità di norme “antiribaltone” la premier in carica abbia illustrato la nascita di governi tecnici (Dini, Ciampi, Monti, Draghi) come «decisioni che hanno stravolto la volontà dei cittadini», neanche fossero dei golpe, in un sistema nel quale in caso di difficoltà della politica - leggasi l’eterna conflittualità anche coalizionale dei politici italiani - è comunque il presidente della Repubblica a fare da arbitro: Meloni insiste che l’intera riforma è fatta «per preservare la figura del capo dello Stato». Al quale però si svuota la funzione, esattamente come al Parlamento.

La riforma è di iniziativa governativa, non parlamentare: è la prima volta nella storia Repubblicana. Quando il Popolo delle Libertà presentò la sua, di riforma costituzionale, ne discusse a Palazzo Chigi - e già questo fece scandalo - ma ebbe cura di far presentare poi il ddl in Parlamento. Certo, anche su questo testo di riforma costituzionale «c’è stata la consueta interlocuzione con gli uffici del presidente della Repubblica», come ha precisato ieri Meloni. Significa che al Colle conoscevano - ovviamente - il testo. E infatti il Quirinale ha fatto filtrare per tempo la propria posizione: una presa d’atto, pura e semplice.

La regola è che il presidente tace quando il Parlamento è al lavoro, ma in questo caso il riserbo è totale, e riguarda anche i canali riservati. Perché la riforma concerne il Quirinale, il suo ruolo e i suoi poteri, come quelli del Parlamento, e in sostanza l’intero equilibrio istituzionale, anche più che il futuro che si tratteggia per Palazzo Chigi. E dunque, alle prime bozze circolate, il Quirinale ha già fatto sapere che firmerà certo il ddl: è il Parlamento che deve decidere in merito alla riforma. Sono gli italiani che devono scegliere. Con un referendum, di qui a 18 mesi al massimo, come ammesso ieri anche da Meloni.