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Nella seduta dello scorso 19 novembre, il comitato direttivo centrale dell'Associazione nazionale magistrati ha approvato all'unanimità, con l'astensione dei soli componenti di Area, la proposta di individuazione dei carichi di lavoro dei magistrati italiani. Proposta che, in un sistema come il nostro, rischia di avere pesanti riflessi sui tempi di definizione dei procedimenti sia penali che civili. A prescindere da eventuali riforme, per quanto concerne il penale, della prescrizione del reato. Il tema era nel programma della giunta unitaria a guida Piercamillo Davigo, oltre ad essere stato oggetto di consultazione referendaria fra le toghe. Dopo alcuni mesi di lavoro, la commissione di studio dell'Anm "Carichi di lavoro" ha presentato, dunque, il progetto relativo alla determinazione in concreto dei carichi esigibili, cioè di quanti procedimenti debbano essere trattati in un anno da ogni singolo magistrato. È stato, in sostanza, elaborato un metodo per "la individuazione di parametri nazionali di misurazione e delimitazione dell'attività giudiziaria, diversificata per funzioni". Lo spunto è venuto dall'articolo 37 del decreto 98 del 2011 su "Disposizioni urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria", dedicato alla gestione dei procedimenti civili, applicabile comunque anche a quelli penali. "I capi degli uffici giudiziari, sentiti i presidenti dei rispettivi Consigli degli Ordini degli avvocati, entro il 31 gennaio di ogni anno redigono un programma per la gestione dei procedimenti civili, amministrativi e tributari pendenti. Con il programma il capo dell'ufficio giudiziario determina: gli obiettivi di riduzione della durata dei procedimenti concretamente raggiungibili nell'anno in corso; gli obiettivi di rendimento dell'ufficio, tenuto conto dei carichi esigibili di lavoro dei magistrati individuati dai competenti organi di autogoverno, l'ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti pendenti, individuati secondo criteri oggettivi ed omogenei che tengano conto della durata della causa, anche con riferimento agli eventuali gradi di giudizio precedenti, nonché della natura e del valore della stessa". La commissione di studio ha provveduto a individuare range di produttività su scala nazionale, "calcolati tenendo conto del fatto che i dati statistici attuali sono drogati da una rincorsa alla quantità che va a discapito della qualità". Si è poi individuata una fascia di produttività sostenibile determinata coordinando i carichi esigibili con gli standard medi di rendimento. Ciò ha permesso di stabilire la differenza tra il carico massimo, oltre il quale la prestazione non può essere richiesta, e il carico minimo, che delimita la normale operosità e in cui in pratica si sostanzia lo standard di rendimento. È evidente che, in questa ottica, "lo standard medio di rendimento deve essere significativamente inferiore al massimo lavoro sostenibile da un magistrato". Che, in concreto, "potrà essere agevolmente calcolato attraverso una riduzione percentuale del valore massimo determinato". Ma vi è di più: "Il superamento della soglia massima costituirà una circostanza meritevole di attenta valutazione che dovrebbe indurre a considerare come scusabili eventuali ritardi ed errori, rivestendo la situazione in sé il carattere di eccezionalità". Anzi, "una prestazione che si collochi al di sopra del limite massimo, pur non potendo essere automaticamente considerata inadeguata o addirittura non autorizzata, costituirà campanello di allarme di perdita di qualità del prodotto giudiziario e rappresenterà un chiaro segnale della responsabilità della politica, non in grado di limitare la ingestibile domanda di giustizia lasciando sostanzialmente sola (da decenni) la magistratura". Analogamente, "una produttività inferiore alla soglia minima non potrà essere di per sé automaticamente valutata negativamente ai fini della produttività del magistrato, esistendo una pluralità di contingenze non preventivamente calcolabili, ma dimostrabili dall'interessato, idonee ad avvalorare l'adeguatezza della prestazione". Il risultato finale è, dunque, "la creazione di parametri di produttività massima e minima calcolati a livello nazionale, ma al contempo sufficientemente elastici in relazione alle peculiarità di ciascun ufficio e funzione". Che di fatto però apre la strada a una inedita concezione della giustizia: all'applicazione, cioè, della concezione fordista del lavoro alla magistratura.