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matteo piantedosi
Il biglietto da visita del governo Meloni non è il dl sul carcere ostativo: quello era un atto a modo suo dovuto perché nessun governo, ma meno di ogni altro quello del centrodestra italiano, avrebbe retto i titoloni già pronti per il 9 novembre, qualcosa sul tipo “la casta salva la mafia”. La premier se la è cavata con il copia e incolla della legge già approvata praticamente all'unanimità dalla Camera, rinviando le modifiche peggiorative dal punto di vista delle garanzie e del diritto alla fase di conversione parlamentare. Responsabilità del Parlamento. Il biglietto in questione non sono neppure le nuove norme sul Covid, che poi si riducono a permettere ai medici non vaccinati di rientrare in servizio due mesi prima del previsto e che sono a loro volta rese inevitabili dalle circostanze. È evidente che con le corsie piene e le sale medici vuote, 4mila dottori meno del necessario e gli effettivi, di conseguenza, oberati di lavoro non c'era altro da fare. Altrettanto dicasi del rinvio dell'entrata in vigore della riforma Cartabia. Di fronte al «grido di dolore» di tutti i procuratori generali in coro e con due mesi a disposizione per ritoccare le norme evitando l'ingorgo paralizzante e comunque per dare un attimo di respiro agli uffici per provare a riorganizzarsi la scelta del governo non poteva essere diversa da quella che è stata. Il biglietto da visita è la norma sui rave, ed è un biglietto tanto eloquente quanto preoccupante. Per la rigidità delle sanzioni ma anche per la vaghezza della fattispecie che colpirà pure “essenzialmente i rave” ma per come è stata annunciata può spaziare ben oltre quegli adolescenziali confini. Del resto è l'indirizzo indicato subito dall'attivissimo nuovo ministro Piantedosi: conflitto frontale con le Ong, sgombro del rave di Modena e magari per pura coincidenza però aggiungono sapore anche le botte agli studenti, che si potevano evitare nonostante gli stessi avessero parecchi torti. Come ha ripetuto più volte ieri in conferenza stampa la presidente del Consiglio, i primi provvedimenti hanno anche un valore simbolico e il simbolo in questo caso rinvia a un governo che come priorità ha il pugno duro sull'ordine pubblico, anche se non sembra affatto essere quella la principale emergenza messa in agenda da una realtà arcigna. È una scelta politica ma coerente con la decisione di confermare per il terzo governo consecutivo un prefetto al Viminale: più una nuova e pessima abitudine che un'eccezione a conferma della regola. Sembra un particolare e infatti nessuno lo ha segnalato quando il governo Conte scelse la prefetta Lamorgese per succedere a Salvini. Però non è affatto una sterzata ininfluente. Nella Prima Repubblica la sola idea di insediare al Viminale un prefetto sarebbe stata inimmaginabile, irricevibile. Considerare il ministero degli Affari interni come un ministero tecnico incaricato essenzialmente di mantenere l'ordine pubblico, cioè fuori dai denti un ministero di Polizia, sarebbe apparso clamoroso e inaccettabile proprio perché negava in radice la natura politica di un ministero delicato forse più di ogni altro. I precedenti del resto parlano da soli. Prima del 2019, dunque in una settantina e passa d'anni, si erano contati solo due casi di ministri degli Interni non politici: Coronas, ex capo della polizia, con Dini e Cancellieri con Monti. In entrambi i casi si trattava però di governi esclusivamente tecnici, a differenza di quello tecnico-politico di Draghi. La ratio della scelta del governo Conte 2 è evidente: subito prima, nel governo Conte 1, Salvini aveva dimostrato come si potesse usare il Viminale a fini di propaganda. L'esigenza di “raffreddamento”, pur reale, non basta a giustificare una scelta di tale rilevanza ma almeno la spiega. Draghi non aveva problemi del genere ma poteva impugnare la natura “doppia” del suo governo. Nel caso di Giorgia Meloni invece la scelta di affidare a un prefetto per la terza volta il Viminale è precisamente una scelta politica: sancire il ritorno definitivo degli Interni al rango di ministero di Polizia. L'opposizione, avendo incautamente aperto la strada, non può dire niente ma si può star certi che i sempre citati e mai rispettati fondatori della Repubblica qualcosa da dire la avrebbero invece avuta. Molte cose da ridire, anzi.