«Ho fatto esperienza dei tentativi precedenti, costellati di delusioni. Ho iniziato con Bozzi ed ero lì quando è fallita la Bicamerale di D’Alema». Uno sente Claudio Petruccioli introdurre il discorso sulle riforme e pensa: ecco, sta per dire che è meglio lasciar perdere. Che anche stavolta finirà come in passato. E invece no: l’ex presidente della Rai, parlamentare per cinque legislature dal Pci all’Ulivo, figura di grande rilievo della sinistra italiana, rivolge semplicemente un invito alla prudenza, a «non cedere alla sceneggiata di presentare una proposta riformatrice come se si trattasse di un’impresa mai vista, come se non avessimo alle spalle non solo le Bicamerali, i referendum falliti, ma anche i piccoli e incompleti passi già fatti, come la riduzione dei parlamentari. Serve cautela, realismo, concretezza, equilibrio».

E qui la domanda è inevitabile: mettiamo che Meloni se ne renda conto, e accetti una soluzione non monumentale ma comunque utile alla stabilità, davvero Schlein, leader dell’opposizione e della sinistra, può permettersi di legittimare la premier di destra, erede di una tradizione che risale al Msi?

Scusi, ma che discorso è? Fanno parte dello stesso Parlamento. Così come facevano parte di uno stesso consesso le forze costituenti, che pure nel quarantennio successivo si sono divise fra chi era legittimato a governare e chi invece, come il Pci, era escluso. Persino una storia repubblicana segnata da un paradosso simile è stata edificata sulla legittimazione reciproca, sulla partecipazione di tutti al percorso costituente. Vorrei citare una considerazione importante proposta dal presidente della Repubblica nel discorso di fine anno.

A cosa si riferisce?

In quel messaggio ha detto: ' Nell’arco di pochi anni si sono alternate al governo pressoché tutte le forze politiche presenti in Parlamento, in diverse coalizioni. Quanto avvenuto le ha poste, tutte, in tempi diversi, di fronte alla necessità di misurarsi con le difficoltà del governare. La nostra democrazia si è dimostrata una democrazia matura, compiuta, anche per questa esperienza, da tutti acquisita, di rappresentare e governare un grande Paese'. Tutti sono legittimati, e la conseguenza è che tutti sono ugualmente responsabili nella definizione delle regole e degli strumenti costituzionali.

Mi permetta di insistere: Schlein guida non più il Pd veltroniano o quello liberaldemocratico di Renzi, ma un partito d’ispirazione solidarista, di sinistra più che di centrosinistra: come può non stridere, quest’identità, con la legittimazione della premier di destra?...

Serve un’altra citazione: le risoluzioni programmatiche dell’Ulivo. Al primo punto del programma del 1996, ci sono le riforme costituzionali. Se il Pd, come chiunque altro, si sottraesse, se addirittura facesse intralcio per principio, commetterebbe un grave errore. Se davvero un partito, non solo il Pd ma qualunque partito, decidesse di frapporsi a un tentativo razionale di riformare le istituzioni e rafforzare innanzitutto la stabilità dell’esecutivo, farebbe del male non solo al Paese, ma innanzitutto a se stesso.

Siamo a inizio partita: le prime giocate giustificano qualche ottimismo?

Non deve esserci la pretesa di andare oltre il realisticamente possibile, sarebbe pretenzioso inseguire un disegno che stravolgesse l’intero schema disegnato dalla Costituzione.

E questo è l’errore che potrebbe commettere Giorgia Meloni.

È un errore in cui nessuno, semplicemente, dovrebbe cadere. Sarebbe un comportamento stupido e improduttivo.

Comunque a guardare i fatti, non siamo partiti malissimo. Schlein parla ad esempio di sfiducia costruttiva, Meloni esibisce apertura purché si evitino strategie dilatorie.

Torniamo allora al quadro generale. A me interessa parlare dello Stato, pur senza rinunciare a esprimere giudizi sulle scelte politiche, come ha visto. Intanto le dicevo di partire sì dai fallimenti ma anche da quel poco che si è realizzato, come il taglio dei parlamentari: se vogliamo dare senso a questa scelta, si devono compiere dei passi verso il monocameralismo.

Cioè riprendere anche un po’ della riforma Renzi, bocciata dal referendum?

Si dovrebbe superare innanzitutto il paradosso del voto di fiducia duplicato. Anche dal punto di vista spettacolare, mediatico, è una liturgia ridicola: dopo aver pronunciato il discorso nel primo ramo del Parlamento, il presidente del Consiglio si limita, nell’altro ramo, a depositare agli atti l’intervento precedente. Qui devo dire di trovarmi in sintonia pressoché completa con Luciano Violante e Stefano Ceccanti: la soluzione è che Camera e Senato votino la fiducia in seduta comune. Lo si può prevedere anche per la sessione di Bilancio, che di fatto si svolge ormai in una sola Camera, con l’altra che ratifica a occhi chiusi. Introdotte queste modifiche, si può in seguito lavorare al monocameralismo vero e proprio e a individuare una Camera delle Regioni sul modello del Bundesrat.

Ma davvero così si darebbe stabilità al sistema?

Di sicuro tutte le precedenti esperienze riformatrici, da Bozzi alla Bicamerale di D’Alema fino a Renzi, hanno sempre riconosciuto che la priorità sarebbe assicurare una maggiore efficienza e capacità operativa del governo e del presidente del Consiglio. Il quale, lo dice la Costituzione, ha il compito di garantire unitarietà di indirizzo all’azione dell’esecutivo. Ora non ha gli strumenti per farlo.

E come ci si avvicina all’obiettivo?

Molto cambia nel momento in cui le Camere, in seduta comune appunto, votano la fiducia non all’intero governo ma al solo presidente del Consiglio, che poi forma l’esecutivo: così la funzione di garante dell’unitarietà poggerebbe su una base giuridica forte. A maggior ragione se, lo dico sempre in accordo con quanto sostenuto da Violante e Ceccanti, e non solo da loro, il presidente avesse il potere di proporre al Capo dello Stato non solo la nomina ma anche l’eventuale revoca dei ministri, nel caso in cui fosse pregiudicata la ricordata unitarietà di indirizzo. E infine, per proteggere il vertice dell’esecutivo dal rischio che la sostituzione di un ministro lo esponga all’ostilità di parte della maggioranza, o ad altri motivi di dissenso che minano la maggioranza in atto, si dovrebbe ricorrere alla sfiducia costruttiva, che farebbe appunto da scudo. E che non sarebbe affatto mortificante per il legislativo.

Certo: viene chiamato a individuare l’alternativa.

Non solo: sarebbe esclusa la possibilità di una sfiducia votata, com’è avvenuto, sotto l’impulso di un momento di particolare tensione politica, senza prospettive positive. La sfiducia costruttiva impone allo schieramento che l’ha votata di presentarsi, entro un preciso termine, agli elettori, e chiedere il sostegno per proseguire nell’azione di governo.

Un Parlamento responsabilizzato, insomma.

E un presidente della Repubblica i cui poteri non verrebbero affatto toccati: sarebbe comunque lui a nominare, ed eventualmente a revocare, i ministri su proposta del Capo del governo e a svolgere tutte le sue funzioni di garanzia. Il tutto in un quadro in cui il premier non è eletto direttamente dal popolo: altrimenti, in base al modello poi accantonato da Israele, nel momento in cui il vertice dell’esecutivo cade, si dovrebbe andare a nuove elezioni, a ripetizione.

Il che ridurrebbe eccome il Parlamento a un’appendice del premier.

Appunto, me ne guarderei. Si può osare un po’ secondo il modello Westminster, che attribuisce al primo ministro la facoltà di chiedere lo scioglimento delle Camere, senza tuttavia l’automatismo vigente nel Regno Unito. Di una cosa si può essere certi: rafforzare l’esecutivo migliora anche l’esercizio dei poteri del Capo dello Stato e del Parlamento. Oggi il legislativo è un incrocio di estenuanti contrattazioni: con una riforma equilibrata sarebbe più stabile e produttivo.

E l’antipolitica perderebbe argomenti. Quale procedura vede praticabile per realizzare le riforme?

Più che a una Bicamerale, ci si dovrebbe affidare al lavoro congiunto delle due commissioni Affari costituzionali o, come propone Ceccanti, istituire una commissione ad hoc in seno allo stesso Parlamento, composta in base ai consensi raccolti dalle forze politiche nel proporzionale. Ambizioso e difficile, ma interessante.

Lei diceva che la considerazione di Mattarella sulla novità di un Parlamento composto da forze che possono vantare, tutte, responsabilità di governo consente di accantonare ogni pregiudiziale, anche quella nei confronti di una premier di destra..

I partiti non possono ignorare il senso della storica circostanza messa in evidenza da Mattarella. Se non si rendessero conto che, pur con la dovuta prudenza, i problemi vanno affrontati, avrebbero una colpa grande. Chi si assumesse la responsabilità di ostacolare per principio, poi la pagherebbe. Ciascuno sarà giudicato per come si comporterà in questa prova. Riguardo in particolare al Pd, auspico che, in coerenza con la propria storia e con quella dell’Ulivo, eserciti un’azione coerente, decisa, ma costruttiva. Altrimenti farebbe male a se stesso, oltre che all’Italia. Farebbe un grandissimo errore. E spero proprio che non accada.