La tregua nel Pd è finita sabato scorso. I cerimoniali diplomatici della Direzione, i giuramenti accorati sull'intangibilità della segretaria appena eletta, le “offerte d'aiuto” da ogni dove contano quel che contano, cioè pochissimo. La realtà è che la scelta della stessa segretaria di partecipare alla manifestazione di Conte era già in sé un passo quasi senza ritorno. La trappola più o meno consapevolmente tesa da Conte con una esposizione molto radicale sul fronte nevralgico della guerra e la provocazione di Grillo, che in realtà prendeva di mira proprio Conte, hanno completato l'opera.

Il discorso di Elly nel primo appuntamento difficile della sua segreteria indica però molto chiaramente che la rotta era già stata tracciata. La segretaria, messa alle strette da quanti le chiedevano di uscire dalla dimensione della protesta e della denuncia per passare a quella della proposta, ha articolato un'agenda alternativa sulla quale l'unità d'azione con il Movimento di Conte è quasi automatica: sanità, scuola, lavoro, Pnrr, lotta contro l'autonomia differenziata, Europa federalista. L'apertura almeno formale alla “collegialità” era d'obbligo, trattandosi di una critica mossa dai suoi stessi sostenitori, ma nei fatti l'outsider bolognese non ha alcuna intenzione di rinunciare al movimentismo e alla presenza in piazza, vuole anzi «un'estate militante», e anche quello è di per sé un collante spontaneo con la forza politica che si fregia appunto del nome “Movimento”.

La stessa posizione priva di sfumature sulla cancellazione dell'abuso d'ufficio, anche a costo di entrare in rotta di collisione con tutti i sindaci del Pd, risponde forse alla stessa logica. Sulla giustizia, elemento costitutivo dell'identità dei 5S ben più della guerra, il nuovo corso del Nazareno non si sposta di una virgola, pur esistendo nel partito, forse ai vertici più che alla base, una sensibilità garantista che con il giustizialismo grillino non dovrebbe avere niente a che fare.

Elly, di fronte alle insistenze di quanti reclamavano un'identità chiara del suo partito e una politica delle alleanze non limitata alla sterile invocazione del solito “campo largo”, ha deciso. Nei fatti se non nelle dichiarazioni esplicite. È il motivo per cui la maggioranza degli elettori l’ha portata alla segreteria, ma all'interno del partito, si sa, gli equilibri sono diversi e molto più instabili.

Le frizioni sulla guerra rimandano a questo scontro di fondo, quasi inconfessato ma decisivo, quello tra chi sostiene la svolta drastica a sinistra e la creazione di un polo apertamente connotato in quel senso e chi invece non vuole una politica che, dalla nascita del Pd in poi, ha guardato molto più alle fasce medie e medio alte che non a quelle popolari. I timidissimi bisbigli della Schlein sulla necessità di una trattativa, in sé non sono certo una differenza tale da giustificare la divisione che si è già profilata nel partito.

Non si può neppure dire, però, che la guerra sia solo una scusa. Due forze politiche alleate non possono avere posizioni opposte su un tema così centrale come la politica estera in tempi di guerra. O se possono, come capita nella destra, deve essere sulla base di una posizione egemone imposta ai pur poco convinti alleati. La linea di Letta e di Conte era inconciliabile e in buona misura proprio questo ha portato alla caduta del governo Draghi.

La soluzione modello centrodestra, dall'altra parte della barricata, non può essere applicata perché tra il Pd e l'asse M5S- Avs lo scarto non è tale da permettere l'imposizione di una linea, senza contare che le cose sono naturalmente molto più facili in una coalizione che esiste da almeno 25 anni che non in una che deve ancora faticosamente nascere. La sola via d'uscita è dunque avvicinare almeno un po' le posizioni, in modo da rendere tollerabile la distanza che comunque resterebbe. Un Pd schierato a favore dell'appoggio senza ombre all'Ucraina ma anche deciso a insistere molto più di quanto non abbia fatto sinora sulla ricerca di una soluzione diplomatica sarebbe probabilmente una strada percorribile ma la segretaria sarebbe immediatamente massacrata non solo dalla minoranza interna ma anche dai media, inclusi quella che oggi la appoggiano.

Ma a quel momento della verità Elly Schlein dovrà arrivare se vuole arrivare sino in fondo nella strada che ha imboccato ieri, anche a costo di affrontare uno scontro interno che prima o poi sarà inevitabile. Certo, il lungo lasso di tempo che ci separa dalle elezioni politiche consente di rinviare il passo fatale contando sul fatto che la guerra finirà prima e così il problema verrà cancellato. Però, a parte il particolare per cui non è affatto detto che la politica internazionale torni tranquilla e anzi lo si può quasi escludere, le alleanze dell'ultimo minuto servono a ben poco.