La croce del Pd si chiama M5S. La spina nel fianco dei 5S è il Pd. Il calvario del Pd è già eterno, prosegue da oltre 10 anni nei quali si può dire che il Pd le abbia provate tutte, dalla ricerca del dialogo di Bersani alla guerra aperta di Renzi, dall'alleanza sotto la bandiera di Conte «l'insostituibile» di Zingaretti al tentativo di isolarli e soffocarli di Letta sino alla strategia di Schlein, che sembra pronta a quasi tutto pur di cementare l'alleanza.

Il problema sta in parte proprio in quell'averle “provate tutte”, conseguenza a propria volta del ricambio vorticoso di cinque segretari in un decennio o poco più. Quelle linee opposte, contraddittorie e alternate, infatti, sedimentano lasciti non facilmente cancellabili sia nel partito che, soprattutto, nell'elettorato. La pessima abitudine del Pd di cambiare linea senza mai sconfessare apertamente quella precedente, nemmeno fossimo ai tempi della Terza Internazionale, completa l'opera. Sia ad averceli alleati che ad averceli contro i 5S restano il nodo irrisolto che strangola il Pd, come si vede con una certa nitidezza in queste regionali.

I 5S non sono in condizione molto migliore. L'ostilità e la rivalità con il Pd non è un elemento accessorio del Movimento, fa parte del dna del “vaffa” tanto quanto lo era la guerra contro Berlusconi, forse anche di più. È probabile che nel gruppo dirigente e nel ceto politico che in questo decennio si è creato nel Movimento dove uno non vale più uno quell'ostilità sia stata ampiamente superata e del resto i 5S di oggi sono a tutti gli effetti solo il partito di Giuseppe Conte, forse ancora più di quanto siano stati il partito di Grillo e come non sono mai stati il partito di Di Maio.

Ma l'elettorato è un altro paio di maniche. Un Movimento nato contro il Pd può accettare l'alleanza, almeno in alcune sue non irrilevanti componenti, solo nel modello che Zingaretti aveva scelto di accettare: con una guida 5S che ne siglasse, almeno in apparenza, l'egemonia sull'alleanza. La visione dell'ex governatore del Lazio era in realtà più sofisticata, mirava a fare di Conte una sorta di nuovo Prodi, espressione dei 5S sì ma ancor più della coalizione della quale era da solo il cemento. In questo modo al Pd sarebbe rimasta la possibilità, dopo aver rovesciato i rapporti di forza del 2018, la possibilità di presentarsi invece come asse della coalizione pur accettando un premier pentastellato. Riteneva che agli elettori 5S la corona assegnata all' “insostituibile” sarebbe bastata e probabilmente aveva ragione.

L'incapacità di sciogliere questo doppio nodo scorsoio è alle origini dei disastri che i due partiti stanno combinando nelle regionali ed è magra consolazione ripetersi che tanto le politiche sono distanti e c'è tempo. Il problema, come il voto del 2022 si è incaricato di dimostrare, è proprio che tentare un'alleanza abborracciata all'ultimo momento provoca spesso solo danni. Non che i problemi che il Partito e il Movimento affrontano siano di facile risoluzione. Proprio per questo, però, dovrebbero affrontarli strategicamente e alla radice invece che caso per caso, single issue per single issue, regione per regione o comune per comune.

Da questo punto di vista Elly Schlein ha scelto di privarsi del solo strumento che avrebbe permesso di uscire dal labirinto, il filo d'Arianna rappresentato dalle primarie. È evidente che la sola via per raggiungere un'alleanza solida, longeva e soprattutto credibile tra Pd e 5S è la definizione di regole precise in grado di ordinare e quindi contenere l'inevitabile competizione latente. Quelle regole non possono che partire dalle primarie, magari meno approssimative e deregolamentate di quanto siano state sinora quelle del Pd. Solo il verdetto della base comune di un vero centrosinistra può decidere delle candidature, che sono già ora la vera porta strettissima e lo saranno ancor di più quando si tratterà di decidere chi correrà per palazzo Chigi, senza provocare incresciose pochade come quella della Basilicata o rotture suicide come quella che si profila in Piemonte.

Il prezzo può essere salato: la segretaria del Pd deve rinunciare alla centralizzazione verso la quale marcia a passo di carica e dunque esporsi ai condizionamento dei potentati locali, i “cacicchi”. L' “avvocato del popolo” deve rinunciare al doppio binario che gli permette di restare sempre con un piede dentro il centrosinistra e l'altro nella corsa solitaria, che elettoralmente è probabilmente per lui più redditizia. Ma l'alternativa è quella indicata da Romano Prodi con freddo realismo: la condanna alla sconfitta.