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LaPresse
«Siamo in un vicolo cieco tra maggioranza e opposizione». L’affondo di Vincenzo De Luca, governatore uscente della Campania, arriva come un sasso nello stagno di un Partito Democratico che si appresta a entrare nella campagna referendaria sulla riforma della giustizia con più dubbi reali che certezze apparenti.
La riforma Nordio, che separa le carriere tra magistratura requirente e giudicante e ridisegna il Csm, è diventata il terreno su cui si misurerà non solo la tenuta del fronte progressista contro il governo Meloni, ma anche la capacità del Pd di tenere insieme le proprie anime.
De Luca sceglie di parlare non tanto della riforma in sé, quanto delle sue premesse. «La riforma viene dal ritardo del centrosinistra – ha detto – che ha governato per anni senza fare nulla sulla giustizia». Poi la stoccata: «Dopo l’evento Palamara avremmo dovuto intervenire, ma il centrosinistra non ha mai affrontato il problema. Non ho sentito una parola del Pd di solidarietà verso chi ha visto la propria vita rovinata da inchieste finite nel nulla».
Parole che suonano come un atto d’accusa verso l’immobilismo di una stagione politica che lo stesso De Luca rivendica di aver tentato invano di scuotere.
In un momento in cui Pd, M5S e Alleanza Verdi- Sinistra hanno formalmente chiesto di avviare la raccolta firme dei parlamentari per il referendum, l’uscita del presidente campano fotografa una tensione profonda. Il partito è ufficialmente schierato per il No, ma dentro i Democratici si moltiplicano le voci dissonanti. E se la segretaria Elly Schlein ribadisce che la riforma «serve solo al governo per avere le mani libere e per ritenersi al di sopra della legge», la realtà è che molti nel Pd non si riconoscono in questa linea barricadera.
Tra i dirigenti, Debora Serracchiani si spinge fino a denunciare «il tentativo della destra di demolire il Csm», ma il suo passato da favorevole alla separazione delle carriere – condiviso da altri esponenti dell’area riformista – rende il messaggio meno netto di quanto appaia. Ancora più espliciti i segnali che arrivano dall’esterno del Parlamento, dove figure storiche dell’area liberal- democratica hanno già scelto di smarcarsi apertamente.
Goffredo Bettini, da sempre tra gli ispiratori più influenti della sinistra Pd, ha annunciato più volte di essere favorevole alla separazione delle carriere, definendo la riforma «imperfetta ma utile a superare una distorsione di sistema». Con lui, una parte consistente dell’associazione Libertà Eguale, da sempre sensibile ai temi costituzionali: l’ex deputato Stefano Ceccanti, Enrico Morando e Claudio Petruccioli. Tutti convinti che la netta opposizione al testo rischi di far apparire il Pd come un partito conservatore, schiacciato sulla difesa corporativa della magistratura.
Una frattura che costringe Schlein a muoversi su un crinale complicato. A Fisciano, in provincia di Salerno, la segretaria ha attaccato nuovamente la premier Meloni: «Non è una riforma della giustizia che migliora i processi o rafforza l’efficienza. È un modo per liberarsi dai controlli, per dire “vi facciamo vedere chi comanda”».
Ma dietro l’attacco al governo, il messaggio era anche rivolto all’interno: chi vota sì, anche per ragioni di coscienza, mina la compattezza del partito proprio alla vigilia della raccolta firme per il referendum.
In questo scenario, Francesco Boccia prova a fare da collante. «Il governo cerca ogni giorno lo scontro ideologico sulla Costituzione – accusa – e scrive riforme che sono solo bandiere di propaganda». Il capogruppo dem al Senato si sforza di riportare il dibattito su un terreno di merito, ma la difficoltà è evidente: come può un partito che per decenni ha discusso di separazione delle carriere presentarsi oggi come il baluardo della loro unificazione?
De Luca, in fondo, mette il dito proprio su questa contraddizione. Il suo giudizio di “fallimento universale” non risparmia nessuno, né il governo né l’opposizione, e suona come un avvertimento per entrambi: la giustizia, ancora una volta, rischia di diventare il campo di battaglia simbolico su cui tutti perdono. Mentre il Paese, nel frattempo, resta spettatore di un duello che non risolve nulla.
Così, alla vigilia della campagna referendaria, il Pd si trova diviso tra l’ansia di difendere la Costituzione e la tentazione di aggiornare la propria cultura giuridica a una stagione nuova. Le parole di De Luca, più che una provocazione, sono la sintesi di una crisi d’identità. E la domanda che aleggia tra i democratici – ancor prima che tra gli elettori – è semplice ma fatale: si può chiedere agli italiani di votare No, se dentro il partito non c’è un vero perché condiviso?


