Forse doveva passare la nottata, per dirla con Eduardo de Filippo. Ma il cambio di rotta del governo, dalla sera alla mattina, sulla questione del negato via libera della Corte dei Conti al progetto del Ponte sullo Stretto, rivela molto più di quanto non narrino le voci di Palazzo.

Per passare dal definire la decisione dell’organo costituzionale come «una vendetta» (Matteo Salvini) e «la solita invasione di campo della magistratura» (Giorgia Meloni), di certo sarà servita la prevedibile moral suasion del Quirinale, peraltro costantemente esercitata, e pure a tutto campo. Evitare lo scontro istituzionale, non impugnare il veto giuridico - come il governo sembrava intenzionato a fare - e anche tenersi alla larga dalle polemiche, specie considerando che ancora non sono nemmeno state ufficialmente rese note le motivazioni della decisione, sarebbe semplice ABC di buon governo.

Cose, va detto, che le dichiarazioni via social in notturna di Meloni proprio non lasciavano presagire. Tutt’altro.

Né si può credere che nel fare dietrofront per Giorgia Meloni siano stati determinanti argomenti ampiamente prevedibili come quelli del Quirinale. Tenuti ben in conto, certo. Ma cruciale nel rovesciamento di posizione avvenuto dopo una riunione a Palazzo Chigi dev’esser stata una motivazione che è il non detto di tutto il modus operandi di Giorgia Meloni. La quale ha ben chiaro quel che decenni di recente storia italiana insegnano: non si resta in sella a Palazzo Chigi contrastando l’Europa.

La cosa è stata tenuta un po’ sottotono dai media italiani ma, come rivelato dall’agenzia di stampa Bloomberg, a settembre a Bruxelles han preso carta e penna e chiesto a Roma chiarimenti su ambiente, sicurezza, trasparenza e conformità normativa. La Ue ha già aperto un’istruttoria sull’impatto ambientale, affidata alla Commissaria Jessika Roswall, con effetti sui profili di sicurezza, del Ponte: sono stati chiesti “aggiustamenti”, e l’interlocuzione è indispensabile al fine

di evitare procedure d’infrazione, come è prassi della Ue. E il dossier verrà chiuso solo quando saranno state date risposte esaurienti, cosa che il governo italiano non pare abbia ancora fatto: non su tutto, almeno. Bruxelles vuole anche sapere se siano state valutate - spiega la lettera - alternative al progetto del Ponte sullo Stretto che siano «meno impattanti sull’ambiente e più coerenti con il Green Deal europeo». Altri punti sensibili sono il contratto affidato a Webuild, che potrebbe violare norme Ue sugli appalti, e i costi “colossali” che con il loro peso sui bilanci pubblici, «in una fase di compressione della spesa pubblica» costituiscono ulteriori preoccupazioni. E guarda caso proprio questi tre punti sarebbero - secondo le indiscrezioni che circolano - le principali motivazioni del “no” opposto dalla Corte dei Conti, e che saranno ufficiali di qui a 30 giorni.

Anche andare allo scontro istituzionale buttandosi alle spalle il no delle Alte Magistrature - come pure le leggi consentono di fare, ma come sarebbe inedito fare - potrebbe irritare non poco Bruxelles.

Senza considerare poi che il Ponte ha registrato un “no” addirittura da Donald Trump. Perché Salvini avrebbe voluto metterne i costi in conto a quel famoso aumento del 5% alle spese Nato, neanche ci fosse alle viste uno sbarco alleato in Sicilia… Insomma, la cauta reazione allo stop della magistratura contabile va inquadrato in un contesto ampio. Molto più ampio: internazionale. Perché poi questo racconta la longevità di Giorgia Meloni al governo: l’accortezza a non contraddire neanche le virgole del dettato europeo. E neanche di quello americano (ed era così anche con Joe Biden alla Casa Bianca). Con buona pace dell’antieuropeismo - e dell’antiamericanismo d’antan.