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MATTEO SALVINI MINISTRO INFRASTRUTTURE
Forse è solo per sfortunata coincidenza che la decisione della Corte dei conti di negare la bollinatura al progetto per il Ponte sullo Stretto è arrivata in perfetta concomitanza con il quarto e ultimo voto del Parlamento sulla riforma della giustizia. Ma di certo le due vicende s'intrecciano tanto strettamente da condizionare la reazione del governo alla sberla dolorosa della Corte. Mentre il Senato discuteva per l'ultima volta la separazione delle carriere e la approvava con 112 voti a favore, i leader della maggioranza si riunivano in tutta fretta a palazzo Chigi per decidere come reagire al blocco imposto dalla Corte. Alla vigilia gli umori erano più che bellicosi.
La reazione a caldo della premier, mercoledì sera, era stata di una violenza senza precedenti: «E' l'ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del Governo e del Parlamento. La riforma della giustizia e la riforma della Corte dei Conti rappresentano la risposta più adeguata a una intollerabile invadenza, che non fermerà l'azione del Governo sostenuta dal Parlamento». Toni così fiammeggianti sembravano preludere alla scelta dello scontro frontale sul Ponte in vista di quello sul referendum. Il governo avrebbe potuto andare avanti comunque, assumendosi la responsabilità di ignorare lo stop della Corte e probabilmente proprio questa era l'intenzione iniziale della premier e di Salvini.
Nella notte e poi nel vertice la strategia viene però letteralmente rovesciata. Come spiegherà al termine del summit Salvini: «Aspettiamo con estrema tranquillità i rilievi della Corte a cui risponderemo punto per punto. Mi sarebbe piaciuto far partire i cantieri a novembre invece partiranno a febbraio». È una retromarcia piena e del tutto inattesa. Ancora a vertice in corso l'intera maggioranza, con le eccezioni di Luca Zaia e del capogruppo di Fi alla Camera Barelli, facevano rullare i tamburi di guerra.
Il drastico ripensamento si spiega proprio con la necessità di non fornire argomenti all'opposizione nella campagna referendaria che è di fatto iniziata ieri e si concluderà con l'apertura delle urne in marzo o in aprile, come anticipa il ministro della Giustizia Nordio. Proprio perché si aspettava la scelta più bellicosa, l'intera opposizione era già insorta prendendo di mira il comunicato della premier e a fianco della Corte dei Conti era scesa subito in campo anche l'Anm. La decisione di ignorare la Corte sarebbe stata una prova provata dell'insofferenza del governo e della maggioranza nei confronti di ogni controllo e del bilanciamento dei poteri, essenziale per ogni democrazia. Il governo non ha alcuna intenzione di rinunciare al ponte. Se non potrà fare a meno di arrivare al muro contro muro lo farà. Ma per il momento sceglie di restituire agli elettori l'immagine di un esecutivo che, pur denunciando l'invasione di campo, accetta di misurarsi con gli appunti della magistratura contabile.
Identica linea, anche nel merito della riforma costituzionale, adotta il presidente del Senato La Russa. Assicura che la riforma non mira affatto alla subordinazione del pm all'esecutivo. «Se ci fosse questa minaccia mi trovereste sdraiato a terra per impedirlo». Non si deve però immaginare che il durissimo comunicato della premier sia lo sfogo di un momento. Al contrario è in quella direzione che muoverà la campagna referendaria.
Del merito certo si discuterà in tv e sui giornali: il fronte del no affermerà che la separazione delle carriere è inutile essendo già stata realizzata quasi per intero dalla riforma Cartabia e che comunque se approvata sarebbe un colpo mortale alla democrazia, e poco male se le due affermazioni sono a rigor di logica inconciliabili. Governo e maggioranza negheranno ogni tentazione di attentare all'autonomia del pm e insisteranno sulla necessità di 'liberare' la magistratura dalla presenza soffocante della correnti. Ma la materia è per la stragrande maggioranza degli elettori troppo ostica per orientare il voto. Tutti, poi, cercheranno di evitare il pronunciamento su Giorgia Meloni perché nessuno ha interesse nel trasformare il referendum in un plebiscito sulla premier: per lei significherebbe correre il rischio di una sconfitta personale dalla quale non si riprenderebbe, per l'opposizione, se vincessero i sostenitori della riforma, vorrebbe dire incoronare Giorgia trionfatrice ancor prima delle elezioni politiche.
La campagna elettorale si combatterà dunque tutta sulla necessità per un governo di poter operare senza essere continuamente fermato dalla magistratura e, dall'altra parte, sul rischio di cancellare i controlli e gli equilibri di potere istituzionale rendendo i governo sovrani assoluti. Non a caso Nordio, ieri, ha preso di mira i processi di 'giurisdizionalizzazione' in corso in molti Paesi, quelli per cui si attribuiscono alla magistratura «compiti e censure tipiche della politica» . Essendo entrambi gli argomenti sensati, sarebbe necessario un lavoro di cesello e di accorta mediazione. Ma l'ordalia referendaria non lo permette. Alla fine ci saranno un vincitore e un vinto.


