Oggi a Bruxelles dovrebbe essere sciolto il nodo più aggrovigliato sulla strada dell'Unione europea: la ridefinizione del Patto di Stabilità. I bookmakers non sono ottimisti: quelli che vedono la situazione con le lenti più rosee valutano le possibilità di successo non oltre il 50 per cento. Nel caso che non si arrivasse a riscrivere il Patto in tempo per la scadenza del 31 dicembre, e senza un passo avanti decisivo oggi sarà quasi impossibile, si porrà un secondo quesito: che fare in attesa che la situazione si sblocchi, verosimilmente dopo le elezioni europee? Per l'Italia il passaggio è particolarmente delicato: un esito infausto, esageratamente rigido, potrebbe compromettere l'intera strategia economica per i prossimi anni.

Non c'è da stupirsi quindi se l'Italia ha già minacciato, neppure troppo fra le righe, di calare la sua carta più pesante: rifiutare la firma in caso di norme considerate troppo punitive. Mercoledì, nella lunga intervista a Rtl, la premier ha ripreso quasi alla lettera la formula già usata dal ministro dell'Economia Giorgetti: «L'unica cosa che non si può fare è dire sì a regole che non si possono rispettare». La proposta iniziale di riforma avanzata dalla Commissione, senza entrare nel dettaglio, era ispirata a un principio base: regole fisse ma applicate attraverso una sorta di contrattazione diversa a seconda delle specifiche realtà. Era senza dubbio un grosso passo avanti rispetto alla rigidità stolida e burocratica del patto originario. Però è anche vero che quei parametri non erano quasi mai applicati alla lettera.

La Germania e i Paesi frugali insistono ora per correttivi che renderebbero il nuovo Patto lievemente migliore del precedente sulla carta ma peggiore nel concreto perché quei margini di flessibilità e un po' da suq che erano di fatto praticati con le regole originali non ci sarebbero più. Lo scontro si articola essenzialmente intorno a quattro punti: la richiesta frugale di rientrare dal debito nella misura dell' 1 per cento del Pil ogni anno per i Paesi con debito superiore al 90 per cento del Pil e dello 0,5 per i debiti oltre il 60 per cento.

Giorgetti assicura che l'Italia sarebbe in grado di farlo già dal prossimo anno se non ci fosse di mezzo l'onere pesantissimo del Superbonus. Che però c'è. Di conseguenza l'Italia è disposta ad accettare il pesante vincolo chiesto dalla Germania, ma a patto di posticipare il rientro rigido senza penali di sorta e automaticamente da 4 a 7 anni, con in cambio l'impegno di tenere la barra dritta nella direzione indicata da obiettivi e riforme del Pnrr. Germania, Olanda e affini vogliono poi che gli interessi sul debito siano calcolati all'interno del deficit e l'aggravio, comunque pesante, lo è molto di più dopo la stretta della Bce sui tassi di interesse.

L'ultima condizione posta dai rigoristi, la creazione di una zona cuscinetto per quanto riguarda il parametro del 3 per cento nel rapporto deficit/ Pil, è particolarmente penalizzante per l'Italia. Il cuscinetto servirebbe a evitare il rischio di sforare il parametro a ogni crisi ma di fatto abbasserebbe il parametro stesso. La proposta, poi, è addirittura di dimezzarlo, portando all'1,5 per cento il confine della “zona cuscinetto”.

La richiesta fondamentale dell'Italia è quella, ripetuta sino all'esaurimento, di scorporare le spese per le riconversioni verde e digitale dal deficit. Il ministro delle Finanze Lindner non vuole concederlo e in realtà neppure può. Nel suo Paese è impegnato a evitare che la stessa regola venga applicata in Germania, come vorrebbero i Verdi e la Spd. L'Italia, stando alle parole di Giorgetti nell'audizione dei giorni scorsi in Parlamento, sembra pronta a mediare con una formula che permetta di valutare quelle spese senza scorporo automatico ma in questi casi i dettagli sono tutto e la partita è quindi del tutto aperta.

Senza accordo, il primo gennaio dovrebbero rientrare in vigore i vecchi parametri, ipotesi che nessuno almeno ufficialmente auspica: se a bloccare l'eventuale accordo fosse solo l'Italia la situazione nei rapporti Roma- Bruxelles diventerebbe critica. Ma a Bruxelles nessuno vuole lo scontro con Roma. Dunque non è del tutto impossibile un “accordo politico” che sposterebbe a dopo le europee la trattativa sul Patto. Cosa si dovrebbe fare in questo caso nella fase grigia, da gennaio a giugno, non è chiaro. Ma certo se si arrivasse a una proroga della sospensione del patto di altri 6 mesi per il governo italiano sarebbe un successo smagliante.