La Lega apre la sua “campagna d’autunno” con una mossa studiata: un incontro al vertice tra Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti, immortalato e pubblicizzato con cura per dare il segnale di un partito compatto, pronto a lanciare la sfida non solo all’opposizione ma anche agli alleati di governo.

La riunione, formalmente dedicata alla legge di bilancio in arrivo, si è trasformata in un palcoscenico politico in cui il leader leghista ha scandito le sue priorità, condensate in una nota che non lascia spazio a dubbi: difesa del reddito delle famiglie, pace fiscale definitiva, flat tax al 15% ed extraprofitti delle grandi società da destinare a famiglie e imprese.

Un copione già visto, ma riproposto con tempismo chirurgico. Le elezioni regionali alle porte e la sessione di bilancio rendono questa agenda incisiva, o almeno dovrebbero renderla tale negli auspci del vicepresidente del Consiglio.

Salvini conosce bene i nervi scoperti degli alleati e, secondo il suo modus operandi, li tocca con mano ferma: la tassa sugli extraprofitti, cavallo di battaglia che Tajani ha sempre bollato come dannosa, populista e «sovietica» ; la pace fiscale definitiva, che Meloni non intende concedere per non legittimare l’immagine di un condono mascherato e per banali vincoli di bilancio; l’estensione della flat tax, promessa di lungo corso che fatica a trovare copertura. È un’agenda che difficilmente vedrà la luce nelle forme sbandierate dalla Lega, ma che intanto marca il territorio e dà fiato alla propaganda di partito.

Nella nota diffusa dopo l’incontro, la Lega ha elencato una lista di priorità che suona come un manifesto identitario: «Difesa del reddito delle famiglie, una pace fiscale definitiva con la rottamazione delle cartelle esattoriali, l’estensione della flat tax al 15%, un maggiore contributo da parte di realtà finanziarie che stanno facendo decine di miliardi di euro di profitti, l’applicazione dell’autonomia e del federalismo fiscale, maggiori investimenti per garantire la sicurezza nazionale e la protezione di cittadini e confini, a partire dalla frontiera Sud». Tutto messo nero su bianco, con Giorgetti presente in qualità di ministro dell’Economia ma anche, e soprattutto, come garante della credibilità della Lega.

L'intento è sempre lo stesso: condurre la partita d’autunno da protagonista, costringendo Fratelli d’Italia e Forza Italia a rincorrere o respingere. Per Meloni, che punta a mantenere saldo il timone di Palazzo Chigi in un autunno difficile, la sortita leghista è un campanello d’allarme. Non tanto per la fattibilità delle proposte, quanto per la loro carica divisiva. Nella migliore delle ipotesi, la premier potrà liquidarle come un “libro dei sogni” incompatibile con i conti pubblici; nella peggiore, sarà costretta a negoziare in una legge di bilancio che già si annuncia segnata da risorse limitate e tensioni interne.

Per Salvini, invece, l’operazione ha una doppia valenza. Verso l’interno, significa rassicurare la base sul fatto che la Lega non si è appiattita su Meloni e che resta fedele ai suoi cavalli di battaglia, dalla flat tax all’autonomia. Verso l’esterno, serve a mettere in difficoltà gli alleati, accentuando le differenze programmatiche e cercando di rosicchiare consensi in vista delle urne regionali. Non è un caso che tra le priorità elencate ci sia anche la «protezione dei confini», tema che il leader leghista intende riportare al centro proprio mentre la premier cerca un difficile equilibrio tra accordi con Bruxelles e pressioni interne.

La regia comunicativa è evidente: Salvini ha voluto che l’incontro con Giorgetti fosse raccontato con enfasi, per trasmettere l’immagine di una Lega che discute seriamente di manovra economica, ma che allo stesso tempo non rinuncia al linguaggio diretto della propaganda.

Il risultato è un messaggio a più livelli: al governo, all’elettorato e, soprattutto, a Giorgia Meloni, avvertita che l’autunno non sarà una tranquilla amministrazione dei dossier già aperti, ma un terreno di scontro permanente.

In controluce, si intravede il rischio per la maggioranza: che la legge di bilancio diventi un campo minato di bandierine ideologiche, più che un esercizio di responsabilità. Tajani è già pronto a respingere al mittente l’ipotesi di nuove tasse sugli extraprofitti; Meloni, con ogni probabilità, si limiterà a raffreddare le ambizioni di pace fiscale “definitiva”. Ma intanto Salvini ha ottenuto quello che voleva: gettare la palla nel campo degli alleati e farli esporre in una direzione meno favorevole di quella leghista al contribuente, ribadire il profilo identitario del partito e lanciare un messaggio chiaro alla premier. D’altra parte, è difficile scorgere nella storia recente o meno della Repubblica una sessione di bilancio esente dalla tentazione di piazzare bandierine.