Dov'è il confine tra un finanziamento lecito di un privato a un partito e un atto di corruzione? Ed è sempre illecito che un legislatore o un amministratore si occupi di dossier che riguardano anche imprenditori che figurano tra i suoi finanziatori? La vicenda Toti, al netto dei suoi risvolti giudiziari e dell'opinione che legittimamente ogni cittadino può essersi formato riguardo alle notizie (per ora veicolate solamente dall'accusa, questo va detto) che stanno uscendo negli ultimi giorni, pone una serie di quesiti sul rapporto tra politica e imprenditoria, e soprattutto sul finanziamento della politica, ai quali, nel panorama del mondo occidentale, solo il nostro paese non è ancora riuscito a dare una risposta normativa soddisfacente. E non è un caso che, parallelamente alla forte copertura mediatica che l'inchiesta ligure ha assunto, il tema del finanziamento pubblico ai partiti stia riemergendo prepotentemente.

Nei capannelli in Transatlantico, nei divanetti della “corea” ( il corridoio opposto in genere riservato a discussioni più delicate tra i parlamentari e i loro interlocutori) il sentiment sulla questione, rispetto a una decina di anni fa, sembra decisamente cambiato. Allora, la vis rottamatrice di Matteo Renzi, ansioso di non farsi soverchiare dall'onda grillina in ascesa, impose al premier Enrico Letta di andare fino in fondo nella missione anti- casta, decretando la fine dei rimborsi diretti di cui godevano le forze politiche.

La mossa non bastò a evitargli la defenestrazione da Palazzo Chigi, ma la legge è rimasta e, lontano dai microfoni, molti ammettono che si trattò di una scelta sbagliata, perché dettata da spinte populiste e non da puntuali considerazioni politiche. Per corroborare la propria tesi, i fautori del ritorno al finanziamento pubblico amano proporre l'esempio dell'altro provvedimento adottato da una politica in balìa della demagogia, e cioè il taglio dei parlamentari. Entrato in vigore in questa legislatura, questo sta provocando un rallentamento oggettivo e cronico dei lavori delle commissioni soprattutto a Montecitorio, dove il regolamento non è stato modificato - come invece è stato fatto al Senato - in modo da accorpare le Commissioni e consentire una copertura per quanto possibile più razionale dei lavori. Col risultato che spesso la concomitanza dei lavori d'aula con votazioni contrae i tempo di esame dei provvedimenti, che come è noto avviene prevalentemente nelle Commissioni.

Il proliferare delle inchieste e dei provvedimenti cautelari a carico di amministratori è dunque ritenuto da sempre più parlamentari e addetti ai lavori come una conseguenza del colpo finale assestato al finanziamento pubblico, poiché ai pm e ai giudici è stata di fatto delegata la decisione su quali rapporti tra privati e politici sono leciti e quali no, come dimostrano - prima delle inchieste pugliesi e liguri - quella ad esempio sul caso Open. Questo perché all'abolizione del finanziamento pubblico e all'aumento dei fondi ottenibili col due per mille, non ha fatto seguito una disciplina dell'attività di lobbying paragonabile a quella dei paesi anglosassoni o degli altri paesi europei, anche in virtù di un vecchio pregiudizio della cultura italiana in base al quale le raccolte di fondi e la rappresentazione degli interessi dei privati presso il legislatore debbano celare sempre un rapporto poco trasparente o tendente alla corruttela.

A livello legislativo, i tentativi di creare un quadro più equilibrato non sono mancati in questi due lustri, ma non hanno avuto alcun successo. Le proposte di legge sulla regolamentazione e la trasparenza dell'attività di lobbying si sono tutte arenate, così come quelle sul ritorno a forme di finanziamento pubblico ai partiti.

In quest'ultimo caso, la questione è più complessa, perché per quasi tutte le forze politiche si tratterebbe dell'ammissione di un errore grave. A Palazzo Madama, in prima commissione, il capogruppo del Pd Andrea Giorgis ha presentato una proposta che eleva il plafond previsto per le donazioni provenienti dal due per mille dagli attuali 25 milioni a 45 e prevede un meccanismo simile all'otto per mille, con la ripartizione proporzionale delle risorse dei cittadini che non hanno espresso alcuna opzione.

L'iter è arrivato alla nomina del relatore, nella persona del meloniano Andrea De Priamo ( dato da non trascurare), ma prima l'Autonomia e poi il ddl sul premierato ne hanno bloccato l'avanzamento. Dal punto di vista dem, si tratta in un certo senso di un passaggio ulteriore della “derenzizzazione” in corso, che prevede anche un referendum per smantellare il Jobs Act, mentre nel centrodestra, a fronte di una sostanziale apertura di Fi, la chiave sarà l'atteggiamento di FdI. Alcune affermazioni di Giovanni Donzelli testimoniano un atteggiamento non ostile, ma alla fine potrebbe prevalere la paura di essere impopolari, come sta accadendo dentro M5S, dove qualche mese fa Giuseppe Conte ha dovuto redarguire pubblicamente l'ex- ministro Stefano Patuanelli, per essersi detto non contrario al ritorno a forme di finanziamento pubblico. «Nella mia proposta», spiega Giorgis, «i pilastri sono l'autonomia del potere politico da quello economico, che è alla base di ogni democrazia, la trasparenza totale e la riduzione dei finanziamenti privati. Dopo le Europee» conclude, «vedremo se avrà la meglio il timore dell'impopolarità o ciò che tutti affermano lontano dai microfoni».

Tornando al fronte giudiziario, oggi è una giornata molto importante, perché sul versante ligure ci sarà l'interrogatorio di Toti da parte del Gip e su quello pugliese l'audizione del governatore Michele Emiliano in commissione