Il pomeriggio del 10 giugno 1924 Giacomo Matteotti stava camminando su Lungotevere Arnaldo da Brescia per raggiungere a piedi la biblioteca di Montecitorio. Con la bella stagione questo scorcio di Roma che costeggia il fiume si accende di riflessi dorati, biondi, l’aria, gonfia di tepore, è una dolce carezza che anticipa l’imminente passaggio tra la primavera e l’estate; un secolo fa poi, doveva essere un luogo ancora più incantevole. Matteotti è un abitudinario, un uomo meticoloso e organizzato, dalla sua abitazione di Via Pisanelli, nel quartiere Flaminio, si può arrivare in Parlamento in due maniere; o per vie interne, tagliando per Porta del Popolo e attraversando via del Corso, o, come fece quel giorno Matteotti, costeggiando il Tevere.

Ai lati della strada, all’incrocio con via Scialoja, poche centinaia di metri dall’appartamento del deputato socialista, c’è un’automobile nera che lo sta aspettando, è una Lancia Kappa nuova di zecca presa a noleggio, all’interno cinque uomini: Amerigo Dùmini, Augusto Malacria, Amleto Poveromo, Giuseppe Viola e Albino Volpi. Sono tutti degli ex arditi, il corpo di élite dell’esercito regio che durante la Prima guerra mondiale si rese protagonista di “missioni impossibili” oltre le linee del nemico, lungo le sponde del Piave e dell’Isonzo.

Uomini temprati ma anche poco affidabili, violenti e dediti all’ebrezza, mussoliniani convinti anche se, tra le fila del partito fascista, c’è chi li ritiene dei semplici balordi, dei mezzi criminali, degli infrequentabili. Fanno parte della Ceka, la polizia segreta del regime che aveva mutuato il nome dal celebre corpo di polizia politica dell’Unione sovietica, che sarà stata anche comunista ma era un modello di efficienza. E di ferocia. Rispondono direttamente alla direzione del Pnf ma sono finanziati da fondi pubblici che provengono dall’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio. Il più noto tra loro è Dùmini, fiorentino dal temperamento sanguigno, un intrepido che amava presentarsi agli sconosciuti con un raggelante: «Piacere, Amerigo Dùmini, nove omicidi!».

Stanno aspettando l’onorevole Matteotti, lo pedinano da una ventina di giorni, seguendo ogni suo spostamento e, quel 10 giugno, hanno deciso di entrare finalmente in azione. Però non vogliono dare nell’occhio e quando la “preda” arriva alla loro altezza dall’altro lato della strada c’è un carabiniere, più in là alcuni ragazzini che giocano a palla; decidono di attendere qualche minuto, la Lancia scivola via per un po’ di metri vogliono controllarlo a distanza poi, quando non c’è nessuno, l’auto si blocca: gli arditi scendono dall’abitacolo e si avventano contro il deputato socialista.

Ma a quel punto succede qualcosa di imprevisto, qualcosa che quella squadraccia di energumeni non poteva lontanamente immaginare: Matteotti reagisce, si ribella, lotta come un forsennato, ha 39 anni, è alto robusto, si difende come un leone, tiene testa a Malacria che cade per terra, anche Volpi sembra in difficoltà, per venirne a capo ci vuole l’intervento di Poveromo che lo prende alle spalle colpendolo alla testa con un pugno o forse con un oggetto contundente, così riescono a caricarlo sui sedili posteriori e si allontanano.

Dopo un iniziale stordimento Matteotti riprende i sensi e all’interno del veicolo ricomincia a lottare, con un calcio manda in pezzi un finestrino, lanciando all’altezza di Ponte Risorgimento il tesserino da parlamentare. È un dettaglio importante, il documento verrà infatti ritrovato da poche ore dopo da due passanti e sarà la prova che al più tenace oppositore del fascismo, colui che appena dieci giorni prima aveva denunciato in Parlamento le violenze e gli arbitri del regime pretendendo nuove elezioni, è successo qualcosa di grave, forse di terribile.

Dùmini è alla guida, sfreccia veloce con il clacson schiacciato per coprire le urla, si sta dirigendo verso la campagna a nord di Roma mentre il prigioniero continua a battersi, furibondo. Esasperato, Albino Volpi estrae un grosso coltello dalla giacca e lo colpisce al torace, più di una volta. È solo in quel momento che il prigioniero smette di lottare, è pallidissimo, perde molto sangue, sono i suoi ultimi istanti di vita. Quando Dùmini si ferma, nei pressi del bosco della Quartarella nel comune di Riano flaminio, Giacomo Matteotti è già morto. Decidono di seppellirlo sul posto ma non hanno gli strumenti necessari, ci vorrebbe una pala, sono costretti ad accontentarsi di una lima, la buca che hanno scavato è troppo piccola e stretta, per far entrare il corpo devono piegarlo in due. È un’operazione penosa. Lo ricoprono sommariamente, non proprio un lavoro da professionisti.

Allarmata dall’assenza del marito, Velia Matteotti trascorre una notte insonne, poi chiama la polizia, avverte i compagni di partito, a Montecitorio l’atmosfera e febbrile, sale l’agitazione. Che fine a fatto Matteotti? Una domanda a cui, purtroppo, non sarà difficile dare risposta. Lo stesso Benito Mussolini, che dopo il j’accuse del 30 maggio aveva minacciato il rivale, non può più nascondersi e rispondendo a un’interrogazione parlamentare del deputato Enrico Gonzales, il 12 giugno ammette: «Credo che la Camera sia ansiosa di avere notizie sulla sorte dell'onorevole Matteotti, scomparso improvvisamente nel pomeriggio di martedì scorso in circostanze di tempo e di luogo non ancora ben precisate, ma comunque tali da legittimare l'ipotesi di un delitto, che, se compiuto, non potrebbe non suscitare lo sdegno e la commozione del governo e del parlamento». Parole di circostanza?

Di certo il Duce detesta Matteotti con tutto il cuore, dopo il discorso del 30 maggio sbotta infatti con i suoi: «È assurdo che quello lì sia ancora in giro!». D’altra parte lo stesso Matteotti, alla fine di quella seduta che si era trasformata in gazzarra, annuncia profetico ai compagni: «Preparate il mio discorso funebre ». È Mussolini il mandante del suo omicidio? Su questo punto gli storici non hanno fatto chiarezza ed è probabile che il Duce ignorasse le intenzioni specifiche degli ex arditi che uccidendo il suo avversario pensavano di fargli un bel regalo; di certo nei giorni successivi era venuto a conoscenza dei fatti nei dettagli, e con grande ipocrisia, espresse dispiacere e pubblico cordoglio per la sorte del suo avversario.

Sono giorni difficili per il regime, che vacilla; perché nonostante il fervore degli italiani sempre più ammaliati dall’ascesa mussoliniana, è difficile giustificare un assassinio politico così brutale, anche nel Pnf c’è chi protesta, il duce è costretto a rinunciare al ministero degli interni che va a Federzoni. Forze dell’ordine e magistratura non possono ignorare i fatti e avviano le indagini. Il capo della polizia De Bono convoca Dùmini che gli consegna la valigia con i vestiti di Matteotti, insanguinati: «Devi negare tutto, bisogna salvare il fascismo». Il più incazzato è italo Balbo che addirittura si spinge a chiedere la fucilazione di Dùmini. Intanto, grazie alla segnalazione di due vicini di casa di Matteotti viene individuata la targa della Lancia Kappa, il cerchio si stringe, Dùmini finisce a Regina Coeli, per il momento. Il 16 agosto 1924 il corpo di Giacomo Matteotti viene ritrovato dai Carabinieri di Sacrofano.

L’indignazione è fortissima e corale, per qualche settimana il governo sembra sul punto di cadere ma resiste, anzi: l’omicidio Matteotti segna il punto di svolta. Passata la bufera e dopo un processo farsa ai cinque assassini, tre di loro sono condannati a cinque anni per omicidio preterintenzionale. Saranno poi graziati dal re sotto suggerimento del ministro della giustizia Alfredo Rocco.

Nel gennaio del 1925, pur continuando a negare qualsiasi coinvolgimento materiale nell’assassinio, Benito Mussolini, in un celeberrimo discorso alla Camera, decide di assumersi interamente la responsabilità politica dei fatti. Ora il regime fascista non ha più paura di nulla e si appresta a soffocare ogni forma di opposizione o dissenso con la promulgazione delle leggi fascistissime che avverrà pochi mesi dopo: «Dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l'ho creato».