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IMAGOECONOMICA
La Seconda Repubblica italiana, o comunque si voglia definire il mai compiutamente definito sistema post Prima Repubblica, è fondata su una legge elettorale, anzi sulla cancellazione di una legge elettorale: il proporzionale quasi puro abolito dal referendum del 18 aprile 1993. Gioverebbe ricordarlo ogni volta che viene rivolta a una proposta elettorale l'accusa di “essere fatta apposta per far vincere chi la propone”. Non che sia un’accusa infondata. Ma si tratta di un vizio originario. In una sera dell'autunno 1993 una mesta delegazione del partito che aveva dominato per 45 anni la politica italiana, la Dc, si aggirava per i corridoi deserti di Montecitorio. Andava a presentare un atto di resa incondizionata: l'accettazione di un sistema elettorale uninominale maggioritario al posto del proporzionale in vigore sin dalla nascita della Repubblica. Le espressioni di quei quattro o cinque democristiani già potentissimi dicevano tutto: erano perfettamente consapevoli di essere sul punto di seppellire la centralità dello Scudo Crociato e Paolo Cirino Pomicino, l'unico che volesse resistere invece di cedere le armi, lo diceva forte e chiaro. I referendari, come si chiamava allora il gruppo interpartitico che sosteneva il referendum contro il proporzionale, preferirono lasciare la parola ai cittadini e il sistema proporzionale fu affondato a maggioranza più che schiacciante. La Dc fu travolta ma l’abolizione del sistema proporzionale serviva in realtà proprio a questo: a eliminare la centralità del partito centrista per eccellenza, perno del quadro politico, in grado di allearsi con chiunque (incluso per quattro anni lo stesso Pci con la formula prima dell'astensione e poi della partecipazione aperta a una maggioranza comune). Il referendum non era pensato per far vincere qualcuno, ovviamente. Ma per sconfiggere la Dc e il suo principale alleato, il Psi, certamente sì.
La legge che sostituì il proporzionale, detta Mattarellum dal nome del suo artefice oggi capo dello Stato rimase in vigore per 12 anni e tre elezioni politiche: quelle del 1994, del 1996 e del 2001. Assegnava il 75% dei seggi alla Camera con il sistema uninominale maggioritario (un solo vincitore in ogni collegio, quello che prendeva più voti) e il 25% su base proporzionale. Al Senato gli eletti erano tutti o quasi, salvo un quota minima regionale, eletti con l'uninominale maggioritario. Non era un sistema pensato per favorire qualcuno ma per salvare qualcuno, i partiti minori, e proprio questa fu l'accusa mossa nei 12 anni successivi a un sistema che resta il migliore da quelli sperimentati dopo il 1993.
Nel 2005 il centrodestra al governo decise di cambiare la legge proprio per rafforzare con un cospicuo premio la maggioranza di turno, per evitare che soprattutto al Senato i partiti minori della coalizione mantenessero il loro potere di condizionamento e per aggirare il rischio di un pareggio, che al Senato, anche col Mattarellum, era comunque forte. La coalizione con più voti sarebbe dovuta balzare al 54% dei seggi. Era una riforma cucita a misura di una destra che pensava di vincere di poco le elezioni del 2006. La Corte costituzionale la avrebbe cassata come anticostituzionale nel 2014, dopo 9 anni e tre elezioni politiche: nel 2006, nel 2008 e nel 2013. Ma il senso della legge era stato stravolto ancora prima che fosse adoperata per la prima volta dall'intervento dell’allora presidente Carlo Azeglio Ciampi. Segnalò l'incostituzionalità del premio di maggioranza nazionale al Senato, che per Costituzione deve invece essere eletto su base regionale. La conseguenza fu una divisione del premio regione per regione: dunque l'opposto esatto di quello che aveva in mente l’ingegnere della legge, il leghista Calderoli. Renzi, in quel momento premier, segretario del Pd e signore della politica italiana, era deciso a cambiare comunque il Porcellum. La sentenza della Consulta del 2014 gli spianò la strada. La sua legge del 2015, l'Italicum, si applicava solo alla Camera.


