Le domande sono due, ed entrambe sensate. La prima è: può la Lega permettere alla vorace competitor Giorgia Meloni di scippare al Carroccio il Veneto. La seconda riguarda l'altro lato della barricata, il Pd e suona così: può un partito che dalla “podestà straniera” Elly Schlein ha sin qui accettato tutto, spesso a malincuore, farla decidere imperiosamente su un tema che tocca i propri veri centri vitali, non Roma ma le amministrazioni locali? Due domande che rinviano a un unico tema, quello che in queste ore lacera sia la maggioranza che il Partito democratico: il terzo mandato per i governatori i sindaci dei Comuni oltre 15mila abitanti.

Se non ci fosse il Veneto di mezzo a destra tutto sarebbe semplice. Ma il Veneto c'è e la manovra della premier è allo scoperto: mettere fuori gioco l'invincibile Luca Zaia per poi reclamare per il suo Luca De Carlo la nuova candidatura alla guida della Regione bianca nel 2025. Sulla carta non c'è partita. A favore di Giorgia Meloni sembra giocare tutto: la richiesta di dividere le regioni locomotiva del nord, una per ciascun partito della maggioranza, è ragionevole: l'affermazione di FdI nella regione, alle scorse elezioni politiche, è stata trionfale, con oltre il 32 per cento dei voti; la Lega è isolata, dal momento che non ha sponde nella maggioranza, essendo Fi contraria al terzo mandato, e neppure in Parlamento dove nessun partito maggiore è disposto a convergere sull'emendamento del Carroccio che porta il tetto per i mandati da due a tre.

Ma in politica i conti non si fanno mai col pallottoliere e c'è un motivo se FdI, invece di trincerarsi dietro il no secco, ha cercato invano di cavarsela buttandola sul procedurale, cioè sostenendo che l'emendamento sarebbe inammissibile perché privo dei requisiti di necessità e urgenza solo per sentirsi smentire dal presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, Balboni, che pure è un fratello d'Italia. Quel che rende difficile cavarsela sbrigativamente mettendo sul piatto della bilancia i rapporti di forza è la consapevolezza che la Lega potrebbe diventare, dopo la mazzata, una mina vagante, pronta ad abbattere il governo non appena scorgerà una via d'uscita che oggi non c'è ma prima o poi probabilmente si paleserà.

È significativo che ieri il ministro Lollobrigida abbia rivangato un precedente che suona più che minaccioso: «È noto che l'elettore del centrodestra vuole l'unità e punisce chi lavora per dividere. È già successo con Fini contro Berlusconi». L'arsenale della memoria, però, di precedenti ne fornisce anche un altro, meno rassicurante per i Fratelli: quando nel ' 94 un Berlusconi ancora inesperto pensò di poter mettere la Lega sotto il tallone, Bossi non solo fece cadere il suo governo dopo pochi mesi ma determinò anche la sconfitta del centrodestra nelle successive elezioni del 1996 e oltretutto raggiunse il massimo storico dei consensi proprio in quelle elezioni.

Berlusconi capì l'antifona e da quel momento il suo accordo con Bossi fu d'acciaio. Erano tempi diversi, certo. C'era l'abilità manovriera di D'Alema e nel Pd di oggi nessuno ne ereditato neppure un centesimo e la Lega di Bossi giocava ancora sull'identità “né di destra né di sinistra”. A differenza di Salvini che, a sua volta, non ha nulla in comune con l'abilità innata del Senatur. Ma il quadro della politica italiana è sempre mobile e sempre imprevedibile e fare della Lega un nemico mortale è un rischio grosso. Per Meloni, d'altra parte, la conquista del Veneto è la testa di ponte per soppiantare la Lega nell'intero nord, arrendersi e salvaguardare il rapporto col Carroccio sarebbe un sacrificio molto doloroso. Per questo la partita resta aperta e il ministro Ciriani tenta infatti il rinvio: «Se ne può discutere ma non con un blitz come questo emendamento».

Nel Pd il clima non è più sereno. Elly è fermamente contraria perché vuole liberarsi dei governatori onnipotenti soprattutto ma non solo del sud, il solo vero potere con il quale debba trattare nel Pd. Ma una parte rilevante del partito la pensa diversamente,

non in linea di principio ma per un calcolo sonante: con il terzo mandato le possibilità di conservare l'Emilia senza Bonaccini, la Campania con De Luca contro il Pd e la Puglia senza Emiliano andrebbero a picco. Ancor più contrari gli amministratori locali, che stavolta sono usciti allo scoperto rompendo la consegna per cui il dissenso va tenuto in sordina fino alle Europee.

Se Meloni, puntando i piedi, rischia forte, Schlein rischia ancora di più e in realtà rischia due volte: la prima perché entrare in rotta di collisione con i poteri locali, tanto più in un partito come il Pd, non è mai consigliabile e la seconda perché se, in seguito alla sua opposi zione al terzo mandato, il Pd dovesse perdere nel 2025 regioni come Puglia e Campania, per non parlare dell'Emilia, per la sua segreteria non ci sarebbe più alcun futuro.