C’è un fronte sul quale la destra italiana è sembrata per una lunga fase essere davvero unita: quello della giustizia o più precisamente del tentativo di limitare i poteri della magistratura. Parlare di garantismo sarebbe eccessivo. La Lega e Fratelli d’Italia, ma prima ancora An, hanno sempre cercato di tenere in equilibrio una politica con venature forcaiole, con toni spesso truculenti, in materia di ordine pubblico, salvo scoprire le meraviglie del garantismo quando ci andavano di mezzo le aree di potere, con quello politico in primissima fila. Tuttavia, pur con tutti i limiti del caso, il fronte contro il potere togato era unito. Quell’unità è andata in frantumi quando la destra è arrivata per la prima volta al potere senza Berlusconi, e si è disintegrata con rapidità stupefacente.

Una panoramica sulle evoluzioni degli ultimi giorni parla da sé. Il ministro Nordio, prima sostenuto poi abbandonato di fatto dalla maggioranza, oscilla sul tema chiave ma ormai anche simbolico delle intercettazioni in misura tanto macroscopica da rivelare quanto siano mosse le acque nel governo e nella maggioranza. Il sottosegretario di fiducia della premier in via Arenula, Andrea Delmastro, quasi lo commissaria di fatto e piega la riforma verso il compromesso a cui mira Giorgia: nessun serio limite alle intercettazioni per evitare l’accusa di intralciare la lotta contro il crimine, in particolare quello organizzato, e in compenso una stretta reale sulla pubblicazione delle registrazioni, per salvare le apparenze e poter dire, anche allo stesso Nordio, che qualcosa di rilevante lo si è fatto.

Solo che la Lega non ci sta e l’altro sottosegretario alla Giustizia, il leghista Andrea Ostellari, fa muro contro il bavaglio alla stampa essendosi rammentato che la qualità della democrazia dipende dalla possibilità della stampa e dei media di dire anche cose scomode. Ma Salvini non lascia solo il suo sottosegretario: scende in campo anche lui, sia pure in modo più obliquo, denunciando ogni rischio di conflitto tra politica e magistratura, ed è un modo chiaro pur se non esplicito di smentire il guardasigilli. Che la Lega, dopo un paio di dichiarazioni molto discusse di Nordio, carezzi il sogno di metterlo alla porta è tanto evidente che l’assediato chiude il weekend con un comunicato di fuoco in cui chiarisce di non aver alcuna intenzione di alzare i tacchi e segnala che l’intesa tra lui e la potentissima di palazzo Chigi è assoluta. Forse non è esattamente così, ma certo l’offensiva mirata della Lega contro il ministro non piace neanche un po’, e avendo come obiettivo proprio indebolire lei non è che ci se ne possa stupire.

Solo che Nordio non è solo: lo spalleggia Forza Italia, e Berlusconi, data l’importanza della faccenda, se ne occupa personalmente con una dichiarazione che più esplicita non si può: «Dopo molto tempo l’Italia ha un ministro della Giustizia di cultura liberale e garantista, profondamente affine alla nostra. Sosterremo la sua azione con convinzione».

La maggioranza è insomma divisa in tre: il ministro sostenuto e spinto da Forza Italia mira a una riforma incisiva della Giustizia anche a costo di arrivare allo scontro con la magistratura, la Lega è ora su posizioni opposte, la premier e il suo partito cercano una mediazione tale da salvare la faccia al guardasigilli senza arrivare alla guerra contro il potere togato. Le ragioni contingenti di questa repentina divaricazione sono evidenti. Soprattutto dopo il grande show dell’arresto di Messina Denaro, l’opinione degli elettori è ben poco favorevole alla limitazione delle intercettazioni o a una guerra della politica contro la magistratura. Salvini mira a cavalcare quell’onda, e a riprendersi parte dei voti ceduti in Lombardia a FdI, agitando la bandiera “law and order”, ma la stessa premier non ha alcuna intenzione di perdere il consenso di quella ampia fascia di elettorato sposando per intero la riforma di Nordio.

Ma al di là della contingenza la spaccatura rivela qualcosa di meno effimero. La Lega e il Msi erano i partiti che nel 1992 agitavano il cappio, in senso proprio o metaforico, in Parlamento. Erano i partiti che nell’estate del 1994 resero il governo Berlusconi un’anatra zoppa già nella culla per evitare lo scontro sul famigerato decreto Biondi. La linea di contrapposizione frontale con il potere togato fu imposta da un Berlusconi allora onnipotente, al quale non si poteva dire di no. Del resto la sola presenza del Cavaliere alla guida della destra rendeva quel conflitto comunque inevitabile. Ora le cose sono cambiate. Né Salvini né Giorgia Meloni ci tengono a riaccendere quella guerra fornendo così agli avversari un facile argomento di propaganda e dovendosela vedere con un potere ancora fortissimo. Intravedono, ciascuno a modo proprio e con tutte le intenzioni di sgambettarsi a vicenda, la possibilità di una tregua. Solo che la riforma della Giustizia era ed è il prezzo di Forza Italia. E Berlusconi ha dimostrato di non averlo dimenticato.