I banchi di prova arrivano quando e dove i governi meno se l'aspettano, anche quando invece aspettarsi il peggio, e provare a prevenirlo, sarebbe doveroso. Ma non è un appunto che si possa muovere, almeno per ora, a questo governo che ha fatto poco ma non meno dei precedenti e con pochissimo tempo a disposizione. La puntualità con la quale si ripetono in Italia disastri naturali accompagnati da altrettanto puntuali impegni poi sempre disattesi è sinistra. Nove comuni su dieci, in Italia, sono a rischio alluvione, che minaccia soprattutto le regioni del centro. Le precipitazioni sono le più alte d'Europa ma la situazione è peggiorata notevolmente negli ultimi anni in seguito al cambiamento climatico che avvicina l'Italia al clima tropicale, con alternanza di fasi di siccità a improvvise e violentissime precipitazioni: quel che è appunto successo in Emilia.

I soldi, ha sottolineato ieri un'inchiesta del Messaggero ci sono: non i 30 mld in 10 anni che sarebbero necessari per mettere in di scurezza il territorio secondo l'ex sottosegretario e capo di Italia sicura ai tempi del governo Renzi ma oltre 8 mld messi a disposizione dall'Europa, 2,5 nel Pnrr e altri 6 per i Comuni che dovrebbero essere spesi entro il 2026. Non sono stati spesi e senza un colpo di sterzo drastico non lo saranno, come del resto non sono stati spesi i 3 mld stanziati a suo tempo da Renzi.

Le cause di un'inerzia che impone un dazio sempre più alto in termini di vite e danni immensi sono diverse ma convergono verso lo stesso disastroso esito. I contenziosi tra Stato centrale e Regioni che secondo la Corte dei Conti dimostrano “dubbia capacità progettuale”, “carenza di profili tecnici” e “scarsa pianificazione del territorio” ma resistono alla gestione centralizzata dell'emergenza fanno la loro perfida parte. Ma non ci sono solo le catene della burocrazia e dell'eterno contenzioso Stato-Regioni. Pesa un problema culturale che riguarda trasversalmente tutte le forze politiche: la resistenza “negazionista” a riconoscere la realtà dei cambiamenti climatici. Ogni disastro finisce così per essere interpretato come evento imprevedibile, la transizione energetica segna il passo, l'obiettivo di raggiungere la neutralità entro il 2050 si avvicina già al miraggio e la situazione peggiora di conseguenza progressivamente.

Non si tratta di un limite solo italiano. La guerra ha inflitto una mazzata micidiale alla campagna sulla transizione energetica che, fino al 24 febbraio, era la priorità assoluta dell'Europa. La guerra ha cambiato tutto e costretto tutti ad affidarsi molto più del previsto e dell'auspicato ai fossili, non escluso il carbone. Se inflazione e rincaro della materie prime sono il prezzo più caro che la Ue paga alla guerra nell'immediato, la frenata molto drastica sulla transizione energetica è la conseguenza più nefasta a lungo termine.

Senza contare, naturalmente, gli interessi e il profitto. O meglio senza contare l'occupazione di suolo che dal 1950 si è impennata a livelli vertiginosi, passando dal 2,3% di terreno edificato all'8,3%. L'edilizia abusiva concentrata soprattutto ma non solo a sud e i condoni che garantiscono protezione completano l'opera e nessuno sinora se la è sentita di mettere davvero freno a una delle principali origini del dissesto e della mancanza di protezione del territorio. La conseguenza che se fino al 1990 si contavano circa 5 eventi dannosi ogni anno nei trent'anni successivi la cifra è lievitata mostruosamente, raggiungendo il picco di 100 eventi con danni ogni anno.

Un governo sostenuto da forze politiche nessuna delle quali brilla per cultura ambientalista si trova dunque a dover fronteggiare un'emergenza potenzialmente disastrosa non solo sul piano materiale ma anche, di conseguenza, su quello del consenso. Ma si sa che le difficoltà sono anche occasioni. Ieri il ministro per la Protezione civile ha annunciato un Piano contro il dissesto idrogeologico massiccio per la prima metà del 2024, con diversi obiettivi tutti sulla carta proibitivi: costruzione di nuove dighe, oltre alle circa 500 già esistenti un quinto delle quali sono però quasi fuori uso, risanamento delle reti di distribuzione dell'acqua, che attualmente provocano uno spreco d'acqua pari a oltre il 50% del totale consumato, intervento sui terreni inariditi dalle fasi di siccità, che perdono in seguito all'inaridimento buona parte della capacità di assorbimento. Un Piano insomma che, almeno negli annunci, vorrebbe prendere atto davvero del cambiamento climatico e procedere di conseguenza. Se il governo ci riuscisse sarebbe una medaglia di valore, anche sul piano del consenso, inestimabile.