Claudio Petruccioli, già comunista, parlamentare e presidente del Cda Rai, per decenni ha condiviso la sua parabola politica con quella di Giorgio Napolitano, di cui nel giorno della scomparsa ricorda «la prudenza» come «tratto permanente, generale e tipico della sua personalità» per poi descrivere l’ex presidente della Repubblica come «il massimo interprete di una vicenda intellettuale, politica e morale» che è stata il Partito comunista italiano.
 

Onorevole Petruccioli, qual è il suo ricordo personale e politico del presidente Napolitano?

Prima ancora di parlare dei miei rapporti personali e politici con Napolitano penso sia giusto parlare di lui, della sua vita e della sua parabola politica e umana. Nel momento in cui questa parabola si conclude si deve riconoscere che essa sia stata unica e straordinaria. Già questo basterebbe per spiegare l’essenziale sulla personalità di Napolitano e sul suo rapporto con la politica, con il Pci, con le istituzioni.
 

Una parabola che comincia da giovanissimo, con l’Italia divisa in due dopo l’ 8 settembre…

Alla fine della guerra Napolitano aveva vent’anni, era un giovane studente che si interessava molto di cultura in una Napoli molto in fermento, anche se disordinata e affamata. Conosceva l’inglese e lavorava come traduttore e interprete con gli Alleati e attraverso le attività culturali diventa comunista. La sua era l’attività di un giovane intellettuale che poi fa la “scelta di vita”, come scrisse Amendola, diventando prima funzionario di partito e poi dirigente. Il momento di svolta tuttavia arriva nel 1956.


Come visse Napolitano l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione sovietica?

Il 1956 fu un anno cruciale non solo nella storia del Pci ma anche di tutto coloro che allora erano nel Pci. Io ero ancora troppo giovane ma manifestavo già all’epoca per l’Ungheria, dopo aver ascoltato i drammatici resoconti radiofonici con le scariche di mitra in sottofondo. Napolitano all’epoca faceva parte dei giovani, con Macaluso, Tortorella, Cossutta e altri, che nell’ottavo Congresso del Pci Togliatti promosse nel comitato centrale. Quel Congresso ha segnato la vita di tutti, compresa quella di Napolitano.

Cosa accadde?
A Napolitano venne affidata la risposta ufficiale e critica nei confronti di Antonio Giolitti che aveva invece in modo molto esplicito toccato il punto fondamentale della vicenda ungherese, cioè cos’era diventato il socialismo scaturito dalla rivoluzione d’ottobre. Napolitano svolse quel compito con umana correttezza ma con un’ortodossia politica e ideologica molto stretta. In un certo senso la vicenda di Napolitano all’ottavo Congresso segna il tornante nella vita di tanti e del Pci stesso, perché la risposta del partito alla crisi ungherese diede vita alla divergenza irreparabile tra Pci e Psi che compromise per tutti i decenni successivi la possibilità di unire la sinistra in Italia.


Un obiettivo che Napolitano ha cercato di raggiungere per tutta la sua vita politica…

Non dico che era il sogno ma di certo il proposito non solo di Giorgio Napolitano ma di tanti che stavano nel Pci, me compreso. Io sono entrato nel 1959 e facevo parte della primissima leva giovanile del post Ungheria. Eravamo contrarissimi all’intervento sovietico ma scegliemmo il Pci perché volevamo essere di sinistra e il Psi, che sicuramente per i giovani di allora sarebbe stata un’alternativa possibile, stava preparando l’alleanza di governo con la DC, il che contrastava con la nostra volontà di stare a sinistra.

Qual è il momento in cui le strade sua e di Napolitano s’incontrano?
Un momento importante fu l’undicesimo Congresso e lo scontro con Ingrao. Noi eravamo a favore dell’unificazione della sinistra, come volevano i miglioristi di Napolitano, ma dicemmo loro che non si poteva fare su posizioni di dialogo ma serviva in un certo senso una rivoluzione. Un altro momento decisivo fu il ’ 68. Io ero segretario della Fgci e ci fu una discussione molto forte sull’atteggiamento da assumere nei confronti del movimento degli studenti. Non volevamo assolutamente la rottura e ne discussi quasi dieci anni dopo con Giorgio Amendola, che invece aveva una posizione molto dura contro gli estremismi, che erano diffusi nel movimento. In quell’occasione Napolitano fu molto prudente, non si schierò sulle posizioni più polemiche di Amendola e si può dire che questa prudenza sia un tratto permanente, generale e tipico della sua personalità.

Da quel momento sarà sempre più vicino a Napolitano, umanamente e idealmente…

L’invasione della Cecoslovacchia ci unì perché il Pci agì in maniera diversa dal 1956. Non si arrivò alla separazione che sarebbe stata necessaria nei confronti dell’Urss ma si condannò decisamente l’intervento. Poi ci fu l’esperienza importante della solidarietà nazionale che fu un momento in cui io mi sono molto avvicinato a Napolitano. Nel senso che mi ero convinto che in un regime democratico un partito politico, pure con grandi disegni di rinnovamento della società e del paese, deve competere sul terreno del governo del paese. Non si può essere perennemente opposizione, altrimenti la democrazia ne risente.

E così cominciò la sua carriera parlamentare, sotto l’egida di Napolitano. Cosa le insegnò?

Sono stato eletto la prima volta in Parlamento nel 1983 quando Napolitano era presidente del gruppo alla Camera e sono stato “svezzato” da lui alla vita parlamentare. Fino alla svolta della Bolognina. Io ero tra quelli considerati ultras della svolta e anche Napolitano vedeva la possibilità di realizzare quella aspirazione che aveva sempre perseguito, cioè l’unificazione della sinistra. Era un punto di partenza, non di arrivo. In quegli anni molto travagliati ho fatto di tutto, per esempio al Congresso di Rimini, affinché i favorevoli alla svolta non si dividessero. Altri non lo fecero. D’Alema, ad esempio, non solo metteva in conto ma voleva che ci fosse una separazione tra i miglioristi. Considerava l’unità dei favorevoli alla svolta una scelta che non chiariva fino in fondo le posizioni in campo.


Come cambiò la parabola politica e umana di Napolitano dopo la caduta del muro di Berlino e tutto ciò che ne conseguì, compresa la Bolognina?

Dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione del mondo sovietico Napolitano appoggiò e sostenne la nascita del Pds ma scelse di diventare un uomo delle istituzioni. Dall’elezione a presidente della Camera nel 1992 non fu più un uomo di partito. Una scelta consapevole e determinata che spiega benissimo come il suo rapporto con la politica e il partito guardava più in generale all’Italia e all’Europa. Tanto è vero che nel 1999 si candida al Parlamento europeo. E lo fa con un certo dolore, come mi confidò, perché la sua candidatura di fatto rese impossibile la rielezione di Biagio De Giovanni, suo grande amico e seguace. E di questo soffrì. Ma lui voleva andare in Europa perché aveva in testa un’idea per la politica e per la sinistra dopo la caduta del Muro, dopo Maastricht e dopo l’Euro.

E arriviamo all’elezione alla Presidenza della Repubblica. Cosa ricorda di quegli anni?

Nel 2006 fu eletto presidente della Repubblica da un Parlamento di fatto diviso a metà. E infatti la legislatura durò solo due anni. Il premio di maggioranza voluto dal centrodestra fu decisivo per l’elezione di un presidente del centrosinistra, che tuttavia non fu contrastato da altre candidature forti. Fu un momento storico. Il ventenne che nel ’ 45 cominciava a entrare nell’atmosfera della politica, si era trasformato nell’ottantenne primo presidente comunista della Repubblica. L’unico comunista, almeno finora, al Quirinale. Ed è l’unico che poteva completare questa parabola. Berlinguer è ancora molto amato, ma non avrebbe mai potuto diventare presidente della Repubblica.

In cosa si sente particolarmente vicino all’esperienza di Napolitano?

Napolitano è stato un uomo di partito e in questo ci sentivamo vicini. Entrambi uomini di partito che sacrificavano al legame con il partito delle idee, delle critiche e dei dubbi che portavamo dentro. Il tutto perché consapevoli dell’importanza del rapporto con quel partito ai fini degli sviluppi futuri della sinistra in Italia e in Europa. Guardando sempre alle istituzioni e ai processi unitari in queste istituzioni.

Un ricordo del Napolitano uomo, prima che politico?

Nel ’ 56 Napolitano pronuncia la requisitoria contro Giolitti sull’Ungheria, nel 2006, esattamente 50 anni dopo, viene eletto presidente della Repubblica. La prima cosa che fa è andare a casa di Antonio Giolitti, lo abbraccia e gli chiede ufficialmente scusa. Mettendo assieme questi due estremi si comprende il dramma, la fatica, le contraddizioni eppure la linearità e l’onestà di una vicenda intellettuale, politica e morale di cui Napolitano è stato il massimo interprete e di cui pur da una posizione diversa anche io, come tanti altri, mi sento interamente parte.