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Alla fine dell'inverno 1975 la sinistra extraparlamentare italiana lanciò una grande campagna per mettere fuorilegge il Msi.
Nessun partito si lasciò tentare, tanto meno il Pci. Di lì a poco sarebbero state sciolti gruppi neofascisti radicali, prima Ordine Nuovo nel 1976, poi Avanguardia Nazionale. Nessuno si sognò mai però di procedere allo stesso modo contro il Msi. Sarebbe stato probabilmente impossibile costituzionalmente e di certo politicamente sconsigliabile: forse la seconda considerazione valse ancora più della prima.
Il Msi, soprattutto nella prima fase della sua lunga esistenza, si rifaceva al fascismo e fascisti erano stati ed erano tutti i suoi dirigenti. Ma non a questo si riferisce la Costituzione quando vieta la ricostituzione del Pnf.
Il Msi, nostalgie e coreografie a parte, non si presentava come partito fascista ma tutt'al più come partito che al fascismo guardava come a un'esperienza essenzialmente positiva. Discutibile e forse anche qualcosa di più ma egualmente cosa diversa da un tentativo di ricostruire il partito di Benito Mussolini. Politicamente, la Repubblica e lo stesso Pci aveva capito sin dal dopo guerra che a quella parte minoritaria ma non inconsistente di elettorato di estrema destra bisognava offrire uno sbocco istituzionale perché questo avrebbe garantito la sicurezza della democrazia più di qualsiasi messa al bando autoritaria.
Il Msi rappresentò quello sbocco istituzionale e democratico e lo fece sempre anche negli anni della guerriglia di strada, dei pestaggi e della violenza esercitata e subìta. A differenza dei movimenti apertamente neofascisti, sul Msi non ci sono mai stati sospetti di stragismo, anche se il confine nella galassia di estrema destra era effettivamente labile, soprattutto al livello della base militante, e il ruolo di Pino Rauti è certamente più ambiguo di quello di Giorgio Almirante.
Si tratta comunque di una storia non di ieri ma dell'altro ieri. L'ultimo segretario del Msi è poi stato ministro, vicepremier e presidente della Camera. Se nel 1994, quasi trent'anni fa, era ancora comprensibile porre problemi sulla nomina a ministri degli ex missini, tanto che nel primo governo Berlusconi entrò solo Mirko Tremaglia proprio per evitare lo scandalo, di certo le cose non sono più così nel 2022, anno di grazia nel quale la leader di un partito nato come una sorta di Rifondazione missina è capo del governo grazie al voto degli elettori e non pare sospetta di tendenze assolutiste o antidemocratiche.
La campagna contro La Russa per i suoi elogi del vecchio Msi, in questa situazione, non appare solo poco fondata ma anche frutto di una disperazione culturale prima ancora che politica. E' come se la sinistra e in particolare il Pd o almeno un'area culturale al Pd molto vicina fosse incapace di combattere i rivali politici per quello che sono oggi ma solo avanzando sospetti e denunciando ombre nel pedigree, nella genealogia oppure in aree distanti da quelle dell'impegno politico.
Da questo punto di vista la levata di scudi contro la candidata 5S nel Lazio Daniela Bianchi, perché conduttrice di un programma in tv, non sono molto diverse dalla richiesta di dimissioni dalla presidenza del Senato di Ignazio La Russa.
Si tratta di un'eredità della quale il sistema politico italiano dovrebbe sbarazzarsi una volta per tutte: quella dell'antiberlusconismo, cioè di una battaglia politica combattuta per vent'anni almeno in nome del conflitto di interessi o delle malefatte, vere o presunte, del capo della destra.
Per quanto sbagliata ed esiziale per la cultura politica del Paese intero, quel modo di intendere la lotta politica era però parzialmente spiegata, se non giustificata, dalla natura stessa del berlusconismo, che rendeva quasi impossibile separare la fazione politica dalla personalità e della biografia del suo leader e fondatore. Oggi non vale più neppure quella parziale spiegazione. In termini di efficacia, oltretutto, si trattava di una strategia comunicativa perdente già allora. Oggi lo è ancora di più.