«Personalmente continuo a considerare che il riconoscimento della Palestina in assenza di uno Stato che abbia i requisiti della sovranità non risolva il problema e non produca risultati tangibili e concreti per i palestinesi. La maggioranza presenterà in aula una mozione per dire che il riconoscimento della Palestina deve essere subordinato a due condizioni: il rilascio degli ostaggi e ovviamente l'esclusione di Hamas da qualsiasi dinamica di governo all'interno della Palestina». La dichiarazione di Giorgia Meloni, fatta di fronte ai cronisti nel corso di un punto stampa a New York, dove è in corso l’Assemblea generale dell’Onu, ha fornito agli addetti ai lavori la conferma che a Palazzo Chigi hanno ritenuto deleteria la politica di attendismo ed equilibrismo, rispetto a un tema su cui l’orientamento delle cancellerie europee e soprattutto dell’opinione pubblica italiana è indiscutibile. Certo, si tratta di una formula estremamente prudente, ben lontana da quanto annunciato da Spagna e Francia, ma serve comunque a Meloni per uscire dall’angolo.

Difficile pensare che la presidente del Consiglio avrebbe potuto continuare a eludere la questione. Perché se è vero che la premier ha fin qui scelto la tattica dell’equilibrio, rimandando il momento del “sì” o del “no” a data da destinarsi, è altrettanto evidente che la finestra per barcamenarsi tra le posizioni di Washington e quelle, più articolate, dell’Unione europea si stava restringendo.

All’Assemblea generale dell’ONU, Meloni pronuncerà parole estremamente calibrate e lo ha già fatto capire affermando che «uno Stato prima bisogna costruirlo», lasciando così intendere che il riconoscimento sarebbe prematuro. Ma la prudenza rischiava di diventare immobilismo, e l’Italia potrebbe trovarsi isolata se il fronte dei paesi europei favorevoli al riconoscimento continuerà a crescere.

Sono già undici quelli che hanno detto “sì” «in nome della pace», e a Bruxelles si discute di un atto politico congiunto. La premier, da parte sua, sa che la questione palestinese non è l’Ucraina, dove l’Italia è riuscita a posizionarsi come partner affidabile sia per Washington sia per i partner europei, fungendo da cerniera tra falchi e colombe. Qui il terreno è più sdrucciolevole: la Casa Bianca di Donald Trump ha ribadito il suo no, netto e senza sfumature, mentre a Bruxelles prevale la spinta a dare un segnale simbolico verso una soluzione “due popoli, due Stati”.

Meloni non vuole dare l’impressione di seguire pedissequamente Trump, ma nemmeno di mettersi in rotta di collisione con lui, soprattutto ora che i rapporti con la destra repubblicana sono un asset politico per il governo. C’è chi parla di un azzardo calcolato: «Di quale Stato stiamo parlando?» sarebbe la domanda che la premier continua a porre ai suoi interlocutori, per sottolineare che oggi in Palestina manca un’autorità unitaria e legittimata.

C’è anche un fattore interno: il timore di spaccare la maggioranza, soprattutto in periodo di campagna elettorale: su questo fronte i problemi nascono soprattutto sul versante leghista, dove Matteo Salvini ha bruciato le tappe per accreditarsi come principale punto di riferimento italiano per Israele, e di riflesso per la Casa Bianca, almeno su questo dossier, dove le posizioni di Fratelli d’Italia e di Forza Italia appaiono più conciliabili.

Non a caso Meloni ha rafforzato il messaggio contro i «violenti che inneggiano all’odio», parlando più di ordine pubblico che di diplomazia ma dietro la forza effimera delle dichiarazioni ufficiali comincia a serpeggiare a Palazzo Chigi una certa preoccupazione per la tenuta del consenso, poiché accanto a una piazza radicale e militante pro-palestinese sempre più mobilitata, c’è un elettorato conservatore e di destra che mostra sempre meno indulgenza per i metodi di Tel Aviv e di questo ha tenuto verosimilmente conto nelle parole pronuciate a New York.

D’altra parte, c’era il rischio che questa strategia di rinvio erodesse proprio quell’autorevolezza internazionale che Meloni ha saputo costruire sul dossier ucraino. L’Italia era diventata il Paese ponte tra l’Est europeo e i partner più cauti, riuscendo a guadagnarsi ascolto sia al Consiglio europeo sia alla NATO.

Sulla Palestina, al contrario, il Paese rischia di apparire attendista, perdendo centralità. Le incognite si stanno infatti moltiplicando: la freddezza con Parigi e Madrid, che hanno già aperto al riconoscimento, e la necessità di non irritare Berlino, che si muove con cautela ma potrebbe decidere di accelerare. Se Roma continuerà a sottrarsi a una decisione, il baricentro della diplomazia europea si sposterà altrove, lasciando l’Italia a inseguire.

Meloni sembra voler guadagnare tempo fino a quando la situazione sul terreno non offrirà un pretesto per un cambio di passo: un cessate il fuoco stabile, l’estromissione di Hamas dal panorama politico palestinese, un segnale di apertura da parte di Israele, e si tratta esattamente delle condizioni citate nella prossima mozione di maggioranza.

Ogni giorno che passa senza una presa di posizione netta rende in ogni caso più difficile per l’Italia proporsi come mediatore credibile. In politica estera l’ambiguità o la dissimulazione possono essere un’arma tattica, ma solo se non si trasformano in immobilismo. Continuare a camminare sul filo rischia di trasformarsi in una perdita di equilibrio, con l’Italia marginalizzata sia nel consesso europeo sia nei rapporti transatlantici.

La partita è delicata, ma la premier intanto ha mosso le acque, conscia che presto dovrà decidere da che parte stare: o sarà il contesto internazionale a decidere per lei, relegando Roma a spettatore.