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LA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO GIORGIA MELONI
«Leggo che alcuni esponenti della sinistra sostengono che questo governo non avrebbe investito nulla sulla sicurezza. Una tesi comoda, ma smentita dai numeri». Giorgia Meloni apre così, con un lungo post sui social, il nuovo capitolo della sua campagna sulla sicurezza. È il secondo in pochi giorni, dopo quello dedicato alla “difesa sempre legittima”, e segna un’evidente svolta strategica: il premier vuole blindare la narrazione del governo come garante dell’ordine e della certezza della pena, proprio mentre l’agenda politica ruota attorno al referendum sulla separazione delle carriere e alla riforma Nordio.
Meloni snocciola cifre e rivendicazioni: «Abbiamo già assunto 37.400 agenti e ne prevediamo altri 31.500 entro il 2027. Un miliardo e mezzo per i contratti, 198 euro di aumento medio, pene più severe per chi aggredisce le forze dell’ordine, più mezzi, più presìdi, più Stato nei territori». Il tono è quello della leader che non intende lasciare all’opposizione il monopolio della denuncia del degrado, ma nemmeno al suo vicepremier Salvini la bandiera della sicurezza.
E infatti, nelle stesse ore, il segretario della Lega interviene da Verona per ricordare che «la legge sulla legittima difesa è una buona legge e stiamo lavorando per renderla ancora migliore». Un modo per rivendicare la primogenitura leghista di quella norma e ribadire la propria linea dura, a pochi giorni dal caso di Rovigo, dove un pensionato ha ferito un ladro entrato in casa sua.
La premier, che ha rilanciato quell’episodio parlando, come detto, di “difesa sempre legittima”, sa che il terreno è scivoloso. L’obiettivo è duplice: mostrare continuità con la tradizione securitaria della destra e, al tempo stesso, non trasformare la battaglia per la riforma della giustizia in una resa dei conti contro la magistratura. Il rischio, infatti, è che la difesa del ministro Nordio – condivisa con Forza Italia, che ha impostato la campagna nel segno della rivincita di Berlusconi sulle toghe rosse – venga percepita come un’attenuazione della linea “legge e ordine” su cui Meloni ha costruito – tra le altre cose - il suo consenso.
Non è un caso che, mentre a Palazzo Chigi si ragiona sui tempi della campagna referendaria, i gruppi di Fratelli d’Italia abbiano rilanciato la proposta di uno “scudo legale” per le forze dell’ordine: una norma che allargherebbe ulteriormente le tutele per gli agenti coinvolti in procedimenti penali legati al servizio. Un segnale preciso all’elettorato più sensibile ai temi della sicurezza, e un modo per ribadire che la premier resta ancorata ai valori identitari della destra, anche mentre cerca di incarnare la figura istituzionale del capo del governo di tutti.
Le opposizioni non ci stanno. «Hanno in testa un modello di società in cui ciascuno si fa giustizia da solo», accusa Nicola Fratoianni, leader di Avs. «L’idea che questo Paese diventi come altri in cui ognuno ha un’arma e la usa fa paura. La sicurezza deve essere garantita dallo Stato, che ha il monopolio della forza». Parole che la stessa Meloni, in controluce, sembra voler anticipare e neutralizzare, riconoscendo nel suo post che «esistono criticità e fatti gravi che preoccupano i cittadini», ma imputandoli a «decenni di lassismo e sottovalutazione».
Sul fronte referendum, il cambio di atteggiamento nei confronti dei magistrati è lampante, e dopo la frenata sulla Corte dei Conti nei giorni scorsi, è arrivato anche un post conciliante nei confronti della Consulta, che dovrà pronunciarsi definitivamente sulla decisione del Tribunale di Milano di bollare come incostituzionale il decreto legge sulla Fondazione Milano- Cortina 2026.
Palazzo Chigi ha lasciato infatti filtrare di attendere «con serenità e piena fiducia il percorso avviato e l'esito della pronuncia della Corte Costituzionale, organo di garanzia preposto alla tutela della Costituzione e delle leggi». Parole non scontate, visti i precedenti di qualche mese fa, a partire dall’autonomia differenziata.
La costruzione del messaggio è accurata: Meloni mostra di conoscere il malessere diffuso e al tempo stesso si accredita come chi “ha già fatto” e continuerà a fare. Un modo per saldare l’immagine di premier istituzionale con quella di leader di popolo, mentre sullo sfondo si consuma la solita gara a destra con Salvini. Il vicepremier leghista presidia la frontiera della legittima difesa e della libertà di armarsi, la premier quella del controllo dello Stato e della responsabilità delle istituzioni. Due facce dello stesso racconto, destinate a incontrarsi – e a scontrarsi – lungo la strada del referendum e della lunga campagna elettorale che, di fatto, è già cominciata.


