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Salvini e Meloni
Prima o poi lo scontro tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini, suo principale alleato, diventerà inevitabile. Non significa che sarà fragoroso e deflagrante, e neppure che metterà a rischio la coalizione. In compenso potrebbe modificarne i connotati più di quanto non ci si immagini oggi. All'attacco oggi, al contrario delle apparenze, non è il leghista ma la sorella d'Italia.
La premier ha tolto al suo vice ogni controllo sul suo terreno di gioco preferito, l'immigrazione, ha risposto picche a tutte le sue richieste su tasse e pensioni nella legge di bilancio, lo tiene a stecchetto quanto a supporto per il ponte sullo Stretto, non intende sganciare un euro, in questa manovra, per i Lep ed equivale a soffocare in culla l'autonomia differenziata, lo ha isolato sul terreno europeo. Parlare di un Salvini che, per recuperare in vista delle elezioni europee, si attrezza a fare il guastatore significa capovolgere la realtà: l'assediato è lui e le temute attività “sabotatorie” sarebbero solo un esercizio di autodifesa che per ora il leader leghista non riesce però neppure a impostare. A parte gli strepiti a vuoto.
È anche vero che per il momento Salvini, chiuso nell'angolo dall'asse rigorista composto dalla premier e dal suo numero due, il ministro dell'Economia Giorgetti, può fare ben poco. La sua sola carta è scindere quanto più possibile le sue responsabilità da quelle della premier, senza per questo neppure sfiorare la rottura, e augurarsi che si verifichino alcune circostanze tutt'altro che certe però del tutto plausibili.
La frase con cui Salvini avrebbe commentato la sua estromissione di fatto dalla gestione del fronte immigrazione, «tocca a Meloni e vedremo i risultati», è eloquente e riflette la strategia del leghista che l'abbia davvero pronunciata o no. Nell'elettorato di destra la tendenza a punire i partiti che lo deludono scegliendo l'astensione è meno pronunciata che a sinistra. Sono elettori per cui la paura della sinistra è ancora una spinta molto forte e preferiscono il travaso di voti da una formazione all'altra, senza però abbandonare la coalizione.
Il primo auspicio del leghista è proprio che il fallimento nella battaglia identitaria contro l'immigrazione e la delusione per l'adesione piena alle politiche eruopee rigoriste spostino una percentuale significativa di voti dal partito di Giorgia al suo. Non che possa sognare un ribaltamento dei rapporti di forza ma un calo di FdI alle Europee e una crescita della Lega sarebbero segnali fortissimi e politicamente molto rilevanti. Oggi una simile prospettiva sembra irrealistica ma le difficoltà per la premier, che sin qui ha goduto di venti tutti a favore, sono appena cominciate.
La seconda carta sulla quale punta Salvini è europea. Meloni ha investito moltissimo sull'ipotesi di cambio di maggioranza a Strasburgo. Se davvero si formerà una nuova alleanza Popolari-Conservatori-Liberali, il solco tra i Conservatori e i reprobi estremisti del gruppo Identità e Democrazia, quello di Salvini, di Marine Le Pen e della tedesca AfD, diventerà incolmabile e la ricaduta in Italia dell'isolamento europeo del leghista sarà per lui massacrante. Ma se Meloni perderà la scommessa la stessa forza delle cose spingerà i suoi Conservatori verso i “veri sovranisti” di Identità e l'effetto in Italia sarà altrettanto potente. A dividere le due destre, in quel caso, sarà solo la posizione sull'atlantismo e sulla guerra in Ucraina. È un capitolo fondamentale ma non è detto che lo resti a lungo.
In mezzo ci sarà il passaggio forse più decisivo, la riforma del Patto di stabilità. Il governo ha adottato una politica di rigore persino superiore alle richieste europee, a costo di scontentare elettori e forze di maggioranza, nella speranza di avere così più forza contrattuale su quel tavolo decisivo. Se l'esito della durissima trattativa confermerà gli auspici, Meloni e Giorgetti ne usciranno trionfatori. In caso contrario però difendere l'austerità senza aver ottenuto niente da Bruxelles e soprattutto dai Paesi rigoristi diventerà per la premier impossibile e sarà anzi lei stessa a dover ripiegare su posizioni eurocritiche molto più vicine a quelle di Salvini di quanto non siano oggi.
La prova del Mes capiterà nel pieno di questa sfida sotterranea e di lunga durata. Se il governo si piegherà anche in assenza di una corposa contropartita sul piano delle regole europee, la Lega probabilmente si smarcherà non partecipando al voto se non addirittura votando contro. Il dilemma sarà della premier, che dovrà scegliere tra una resa che renderebbe molto più facile il compito di Salvini e un irrigidimento che comprometterebbe la credibilità che si è conquistata facendo da palazzo Chigi il contrario di quanto promesso ai tempi dell'opposizione.