Come nella favola del re nudo, tutti, pur se per motivi opposti, fanno finta di non vederlo: gli analisti e i commentatori ostili al governo per non regalare alla premier una patente d'encomio, quelli di supporto perché sanno che una parte cospicua dell'elettorato di centrodestra ci troverebbe invece ragione di critica e delusione. Ma la realtà è evidente: Giorgia Meloni è oggi una leader politica compiutamente europeista. I suoi commenti al report di Enrico Letta sul mercato europeo sono stati un peana. La visione illustrata da Draghi nelle anticipazioni del suo report sulla competitività europea è condivisa sin nelle virgole.

La giustificazione ufficiale non è del tutto infondata: oggi a chiedere che la Ue cambi sono le stesse punte di diamante dell'europeismo, come appunto Draghi e Letta. Oggi chi fino all'altroieri sosteneva che tutto andasse bene invoca un cambiamento drastico, anzi una rifondazione dell'Europa. Mario Draghi, in fondo, non la ha messa in modo molto diverso: le regole di prima andavano bene in quella fase, ma in pochi anni tutto è cambiato e la Ue deve adeguarsi «all'oggi o al domani» oppure prepararsi a soccombere, schiacciata tra i due giganti, la Cina e gli Usa.

Giorgia l'europea dunque, e non più, come nei primi mesi del suo mandato, gravata dal sospetto di una piroetta tattica ed effimera, di un europeismo di facciata adoperato per rassicurare i centri del potere continentale e non fare la brutta fine di Salvini nel 2020. Se calcolo tattico c'è stato all'inizio, ed è certamente possibile, oggi l'europeismo di Giorgia Meloni è sostanziale e strategico, dettatole dall'esperienza concreta di governo.

Gli europeisti però devono aspettare prima di stappare lo champagne e brindare al nuovo e in fondo prezioso acquisto. Giorgia Meloni è europeista. Buona parte del suo partito e il principale alleato no. Un sondaggio capitato in contemporanea con il report di Letta attesta che tra gli elettori di FdI solo il 30 per cento si fida della Ue. Forse se lo stesso sondaggio fosse tentato tra dirigenti e quadri intermedi in piena onestà la percentuale sarebbe anche più bassa. Con la Lega, o almeno con Matteo Salvini, il divario è più largo. Il

Carroccio affronta la campagna per le Europee con un manifesto elettorale che più esplicito non si può: «Più Italia, meno Europa». Trattasi di una ricetta diametralmente opposta a quella di Draghi e Letta, applaudita e condivisa anche dalla premier. Più integrazione subito e radicalmente significa infatti “Più Europa, meno Stati nazionali”.

Per l'inquilina di Chigi gli umori del suo partito sono un problema minore: il suo comando è senza ostacoli né teme dissensi. La parte più avveduta del suo gruppo dirigente, a partire dai ministri, è già sulla sua stessa posizione europeista. Gli altri, elettori inclusi, si accoderanno. Con Salvini la faccenda è più complicata. A lungo la politica italiana ha considerato le elezioni europee solo come una specie di sondaggione reale utile per misurare i rapporti di forza tra partiti e nulla di più. Molti si illudono che sia ancora così ma è un abbaglio. Gli equilibri europei, al contrario, riverberano immediatamente e incidono a fondo su quelli dei singoli Stati. Il centrodestra italiano è magistrale nel gestire divisioni anche profonde, addirittura capace di restare unito, caso praticamente unico, con una parte al governo e un'altra all'opposizione. Sin qui la premier se la è cavata con esercizi di acrobazia ed equilibrismo. La mancata firma italiana alla riforma del Mes aveva evidentemente lo scopo di rassicurare l'ala antieuropea della maggioranza e la debolissima reazione dell’Europa dimostra che così è stata intesa e compresa anche a Bruxelles. Ma il compito diventerebbe molto più gravoso se la destra unita e divisa dovesse confrontarsi che le scelte drastiche e l'accelerazione netta che propone Draghi.

Per la premier non sarebbe l'unico problema. Già oggi molte forze del suo Eurogruppo Conservatore appaiono nella sostanza quanto meno a metà strada, come orizzonte strategico, fra l'europeismo di Giorgia e il sovranismo secco di Identità e Democrazia. Anche in quel gruppo la definizione degli assetti europei dopo le elezioni sarà un passaggio comunque difficile che potrebbe diventare estremamente impervio se l'Europa si incamminasse sul percorso tracciato da Draghi e da Letta. Sin qui la conversione all'europeismo, come quella all'atlantismo estremo, è stata per Giorgia Meloni un ottimo affare. Ci ha guadagnato molto in termini di credibilità internazionale senza dover pagare alcun pegno. Non è affatto detto che le cose saranno altrettanto facili in futuro.