«La va o la spacca» o «chi se ne importa, se perdo non mi dimetto» ? Sta tutto in questa tensione - tra l’istinto a sfidare i rivali a costo di “lasciarci le penne” e la ragione che suggerisce di non personalizzare la battaglia sul premierato l’atteggiamento politicamente bipolare della presidente del Consiglio. Al centro dei pensieri di Giorgia Meloni: il futuro referendum costituzionale per portare a compimento «la madre di tutte le riforme». Un giochino, quello della modifica sostanziale della Carta, su cui prima di lei in tanti, a cominciare da Matteo Renzi, sono andati a sbattere. Ed è proprio la fotografia del numero uno di Italia viva che la leader di Fd’I fissa tutti i giorni da quando si è insediata a Palazzo Chigi. Quell’ufficio, del resto, è appartenuto pure a lui, al senatore di Rignano sull’Arno, che quando irruppe sulla scena politica nazionale godeva di un consenso di gran lunga superiore a quello dell’attuale premier. E se uno come lui, l’ex onnipotente Renzi, è stato in grado di precipitare dall’olimpo del 40 per cento alla speranza del 4, forse sarebbe meglio dar retta più alla ragione che all’istinto di lanciarsi nella zuffa. Certo, il leader di Italia viva, all’epoca segretario del Pd, aveva contro buona parte dell’apparato politico e culturale della sinistra italiana (dalla “ditta” dem alla Cgil, passando per gli intellettuali e le università) che vedeva nel “sindaco d’Italia” il delirio autoritario di un capo ubriacato dal potere. Meloni, invece, non deve sfidare il suo mondo: le varie sfumature della destra italiana possono essere più o meno tiepide nei confronti del premierato, ma mai apertamente ostili. Ciò che la premier vuole “rottamare”, semmai, è quella che considera un’egemonia culturale della sinistra che ha da sempre relegato gli ex missini nella penombra dell’illegittimità.

Vera o presunta che sia, questa sensazione sembra guidare spesso la premier verso una voglia di rivalsa che, con le dovute differenze, la fa somigliare sempre di più a quella foto di Renzi appesa sul muro come monito a non lasciarsi trascinare. Resistere alla tentazione, del resto, è complicato quando senti di avere dietro di te «il popolo». E così, invece di adottare uno stile diverso - come ripete e si ripete in continuazione - Meloni finisce per scimmiottare la tracotanza dei suoi predecessori: quella dei «ciaone» e dei «bacioni», per intenderci. Come quando tratta con spocchia gli avversari: «L’ 8 e 9 giugno non sono i salotti radical chic a parlare, ma il popolo», dice in un video elettorale trasmesso su La 7, con tanto di presa in giro dei programmi della rete («cari spettatori di La 7, è da un po’ che non ci vediamo. Spero di trovarvi rincuorati per lo scampato pericolo della deriva autoritaria» ). È la “Miss Hyde” che spesso prende il sopravvento, prima di farsi placare dalla moderata “Dottoressa Jekyll”, quella che deve rimettere insieme i cocci di una notte da leoni. Così, dopo aver sfidato il mondo sul premierato, Meloni torna in sé e dice: «Non mi fa paura l'idea del referendum e non lo considererò mai un referendum su di me, ma sul futuro del Paese». Se non passa? «Chi se ne importa. Io arrivo alla fine dei 5 anni e chiederò agli italiani di essere giudicata».

Ma non basta innestare una retromarcia per cambiare la percezione degli alleati. Una lezione che Renzi conosce bene e “diabolicamente” offre un consiglio «sul referendum da un esperto della materia», scrive sui social. «Se Giorgia Meloni perderà il referendum costituzionale dovrà andare a casa. Comunque. Lei sembra confusa. Ieri dice: o la va o la spacca. Oggi dice: se perdo non mi dimetto, chissenefrega».

Invece «non è così, cara presidente. I referendum su progetti proposti dal governo portano comunque alle dimissioni del primo ministro, in tutto il mondo. Che il premier voglia o no», aggiunge, forse con un ghigno di soddisfazione, l’ex premier. Che poi, perfido, chiosa: «O la va o la spacca? La spacca, Giorgia, la spacca».