Il presidenzialismo ancora non c'è, anche se la premier continua a prometterlo presto. Il presidente del consiglio, sulla carta e anche sulla Carta, è un primus inter pares e nulla di più. Ma la carta, sia con la c minuscola che maiuscola, conta poco e nei fatti quello di Giorgia Meloni è già un “suo” governo. Non ha aperto lei la strada: ci aveva pensato per primo Giuseppe Conte, complice la pandemia. Non è stata neppure lei la prima ad addentrarsi su quella via: lo aveva fatto con altrettanta determinazione accentratrice Mario Draghi, che però era un tecnico e guidava un governo misto, tecnico nella sostanza e politico solo nella forma. Con la leader di FdI a Chigi le cose stanno molto diversamente: guida con poteri anche superiori a quelli di Draghi un governo che dovrebbe essere politico e di coalizione. Proprio come nell'esperienza Draghi, divide la gestione del governo con un solo ministro, quello dell'Economia ma neppure sempre, e con i due sottosegretari alla presidenza, Fazzolaro e soprattutto Mantovano.

Il trattamento riservato ai vicepremier, che sono anche i leader di due partiti della maggioranza su tre, è da questo punto di vista esemplare. Nell'intervista di ieri al Sole24 Ore, la presidente ha liquidato due delle principali campagne di Tajani molto più che sbrigativamente. Sulla privatizzazione dei porti è tassativa: «Il tema non è all'ordine del giorno». Sulla tassa per gli extraprofitti delle banche non arretra, nonostante la pressione del partito azzurro: «Non intendo difendere le rendite di posizione. Mi sono assunta la responsabilità della decisione. Non ho coinvolto gli alleati perché quando si interviene su queste materie bisogna farlo e basta». Naturalmente la premier sottolinea che comunque il rapporto con Tajani è ottimo, come quello con Salvini. Al quale però lei e il ministro dell'Economia, numero due leghista, rispondono no su tutta la linea: pensioni, accise, Flat Tax, aumento dei fondi per il Ponte sullo Stretto.

Il decisionismo della premier e la scelta condivisa con Giorgetti di mettere la stabilità dei conti pubblici, cioè l'affidabilità agli occhi dell'Europa al di sopra di ogni altra considerazione, non possono non creare grossi problemi. Anche, ma non solo, in vista delle europee. Tra i due leader, nonostante la situazione di partenza di un Tajani impegnato nella missione impossibile di rimpiazzare Berlusconi sia la più scomoda, quello più nei guai è Salvini. È vero che dagli spalti dell'opposizione Meloni ha sempre condiviso la retorica di Salvini e ha fatto anche lei promesse che non può mantenere. Ma può sfruttare un apparato ideologico, essenzialmente nazionalista e spesso reazionario, di cui la Lega di Salvini, a differenza di quella a modo suo fortemente ideologica di Bossi, non dispone più.

Il leader della Lega, inoltre, registra sconfitte su tutti i fronti, messo all'angolo da una politica rigorista che rende impossibile anche solo avvicinarsi agli obiettivi centrali nel programma leghista, l'abbattimento della Fornero e la Flat Tax. A guidare quella politica rigorista, inoltre, non è un alleato ma il principale esponente della Lega dopo di lui, il che rende molto difficile caricare troppo la polemica e impossibile distinguersi dalle scelte del governo. La partita dell'autonomia differenziata si profila così come l'unico bastione che permette al leader della Lega di non dichiarare fallimento. Quella riforma però è ad altissimo rischio. Il capo dello Stato non la vuole e anche se non si espone troppo apertamente dispone di canali potenti per ostacolarne la marcia. I partiti alleati, soprattutto quello potentissimo della premier, la detestano e sono decisi a svuotarla quanto più possibile di contenuti. Ma soprattutto si tratta di una riforma costosissima, se si vogliono salvaguardare i Livelli essenziali di prestazione, per un governo con le casse vuote. Il ministro Calderoli lo ammette apertamente: «L'autonomia sarà approvata entro il 2024 ma se serviranno soldi bisognerà trovarli». Impresa non facile per una legge invisa alla stessa maggioranza.

Insomma, il leader che rischia di dover affrontare le urne europee del prossimo 9 giugno a mani vuote è proprio Matteo Salvini. La prospettiva però non è preoccupante solo per lui. Una Lega colpita molto duramente dalla delusione dei suoi elettori sarebbe quanto di più destabilizzante per l'intero governo. E per la sua presidentissima.