Un po' per come stanno davvero le cose in una maggioranza salda nei numeri ma non proprio compatta nell’intimo delle componenti, un po' per come le rappresentano, forzate, gli avversari cercando di far coincidere fatti, sintomi e quant’altro con le loro speranze, Giorgia Meloni sta rivivendo a Palazzo Chigi i giorni, i mesi e gli anni - durerà, durerà anche lei - di Bettino Craxi fra il 1983 e il 1987.

Il quadro politico, certamente, è ben diverso anche per attori, comparse e simili, ma la durezza della partita è la stessa. Non a caso, del resto, Craxi finì presto nelle vignette di Giorgio Forattini sulla Repubblica di Eugenio Scalfari con gli stivaloni ai piedi e la testa in giù, come Mussolini appeso in Piazzale Loreto, a Milano. E la Meloni è già finita con la testa in giù, anche lei, su qualche muro di Milano.

Non c’è nessun Matteotti rapito e ucciso di cui Meloni possa non dico vantarsi ma assumersi la “responsabilità” in un discorso di stile e contenuto mussoliniano citato di recente da un poveretto - a dir poco - che vi si era ispirato a capo di un’azienda pubblica affidatagli dal nuovo governo, e per fortuna dimessosi prima ancora che la stessa Meloni glielo chiedesse, ma Giuseppe Conte ha già avuto la poco brillante idea di tentare l’evocazione del martire socialista nell’aula di Montecitorio parlando contro la presidente del Consiglio e la sua «faccia di bronzo». Ma, come purtroppo gli capita spesso, è caduto in un lapsus scambiando Matteotti con Andreotti, morto per fortuna nel suo letto e con abbastanza anni sulle spalle. Così è capitato al capo ora delle 5 Stelle - che continua a contendere al Pd, anche a quello di Elly Schlein, la guida dell’opposizione - di cadere in una gigantesca, metaforica, silenziosa risata nell’aula dove sta cercando di farsi le ossa anche da deputato, dopo essersele fatte, per quanto non eletto ancora al Parlamento, da presidente del Consiglio fra il 2018 e il 2021.

Craxi arrivò a Palazzo Chigi all’età di 49 anni, contro i 45 della Meloni nell’ottobre scorso, a dispetto dei santi politici che erano allora Ciriaco De Mita, a capo della Dc, ed Enrico Berlinguer, a capo del Pci. Vi arrivò per le perdite elettorali di un De Mita che si era fatto eleggere segretario democristiano col proposito dichiarato proprio di impedire che il leader socialista potesse riuscire dove non era arrivato nel 1979 con l’incarico ricevuto a sorpresa dal presidente socialista della Repubblica Sandro Pertini. Solo Arnaldo Forlani nella direzione della Dc aveva allora cercato di lasciare uno spiraglio aperto astenendosi nella votazione con la quale lo scudo crociato ancora guidato da Benigno Zaccagnini gli aveva sbattuto invece la porta in faccia.

Insediatosi alla guida del governo col proposito di rimanerci il più a lungo possibile, per quanto De Mita avesse ricavato, a torto o a ragione, l’impressione di avergli strappato una promessa di staffetta con la Dc a metà legislatura, poco più o poco meno, Craxi dovette dal primo giorno guardarsi più dallo stesso De Mita, il suo principale alleato, che da Berlinguer, il suo principale e irriducibile avversario. Che non gli perdonava l’ambizione di strappare al Pci il primato nella sinistra perduto dal Psi nel 1948, quando nel cosiddetto fronte popolare la disciplina dei comunisti, a loro modo, nell’uso delle preferenze ridusse di parecchio la rappresentanza parlamentare dei socialisti.

Per quanto aiutato a guardarsi le spalle da un discreto ma vigile Forlani in veste di vice presidente del Consiglio e presidente della Dc, Craxi dovette subire dal segretario dello scudo crociato - un po’ come ora la Meloni dalla Lega di Salvini, che non a caso al Nord ha ereditato l’elettorato una volta democristiano - parecchi sgambetti. Il più clamoroso dei quali fu tentato nel 1985 con la mancata partecipazione diretta e personale del leader Dc alla campagna referendaria promossa dai comunisti contro gli storici tagli alla scala mobile, grazie ai quali l’inflazione finì di galoppare a due cifre. «De Mita - si sfogò la sera dei risultati Craxi con me al telefono è riuscito a far vincere il sì ai tagli solo nella sua Nusco».

Ma, oltre che da De Mita - come oggi Meloni dalla Lega fra assenze dei ministri e dello stesso Salvini nelle aule parlamentari e dichiarazioni di voto ambivalenti, a favore delle armi all’Ucraina ma anche di allarme per l’aggravamento della guerra aperta dalla Russia - Craxi dovette guardarsi anche dal suo ministro della Difesa e leader repubblicano Giovanni Spadolini. Che dopo la famosa notte di Sigonella, che aveva obbligato i comunisti ad applaudire il presidente del Consiglio nelle aule parlamentari, si dimise accusando Craxi di avere non solo contraddetto ma anche umiliato gli alleati americani impedendo ai marines di catturare gli autori e la mente del dirottamento terroristico della nave Achille Lauro. I cui passeggeri e il cui equipaggio, fatta eccezione per l’ebreo americano Leon Klingoffer, erano stati salvati per l’intervento strappato ad Arafat da Craxi e dal ministro degli Esteri Giulio Andreotti.

Dopo il chiarimento intervenuto direttamente fra Craxi e l’allora presidente americano Ronald Reagan, con tanto di scambio di lettere e successivo incontro alla Casa Bianca, al dimissionario Spadolini non rimase altra scelta che rimanere al suo posto.

Chissà se e quante sorprese è destinata a procurare ad avversari e amici, e a noi giornalisti, Meloni nella prosecuzione del suo lavoro a Palazzo Chigi, come Craxi ai suoi tempi. Si abituerà di sicuro, come il suo predecessore di tanti anni fa, così diverso per appartenenze partitiche, studi, formazione e quant’altro, ma appassionato di politica come lei, un “professionista” secondo il linguaggio un po’ critico di Silvio Berlusconi, a sfogliare i giornali la mattina alzando le spalle alla lettura dei necrologi del governo o dell’annuncio del suo ricovero in qualche pronto soccorso di quella grande città ospedaliera dell’informazione.