Sul palco si fa aspettare, il clima è da comizio e si sa che i comizi parlano e scaldano chi già sa come votare. Con la stampa Meloni tiene toni decisamente più discreti che nei giorni roventi e fallimentari della Sardegna. Sul tema la premier glissa: «Ancora non si sa come va a finire». Quanto all'Abruzzo non va oltre un pacato «io sono ottimista». La differenza con la campagna ringhiosa, a tratti quasi da avanspettacolo, in Sardegna è palese. Qualcosa è cambiato. La destra, e soprattutto la premier, hanno scoperto di non essere invincibili. Può sembrare un'ovvietà ma non lo è affatto: solo la convinzione di essere imbattibili, un po' per la propria forza, un po' per la debolezza dell'opposizione, può spiegare, se non giustificare, la raffica di errori clamorosi inanellati l'uno dopo l'altro in Sardegna. Comunque vada a finire in Abruzzo il colpo continuerà a farsi sentire, ma quanto pesantemente lo si scoprirà solo domenica, dopo il voto. In questo senso è un voto che vale doppio: ci si gioca una Regione tornata abbastanza all'improvviso in lizza ma ci si gioca anche, forse soprattutto, la valenza politica anche del voto sardo. E non solo di quello. All'orizzonte, per quanto ancora lontano, c'è il referendum e prima ancora le elezioni regionali dell'anno prossimo, quelle ancora in calendario quest'anno e le Europee.

L'ultima prova è la più importante. La sconfitta al referendum, che ne dica e forse checché se ne racconti lei stessa, sarebbe per Giorgia Meloni e per le sue cospicue ambizioni un colpo fatale. Era partita considerando la partita già vinta: come si può dubitare di cosa deciderà il popolo votante posto di fronte all'alternativa tra decidere chi lo governerà per un lustro o affidare la scelta alle screditate segreterie di partito? Ma anche in Sardegna, e ora in Abruzzo, sembrava non esserci partita e si sa come è andata nell'isola e cosa la destra rischia oggi nella regione al voto domenica. Poi è spuntato un ostacolo non imprevisto ma che la premier credeva di essere riuscita ad aggirare: il presidente della Repubblica. Se le segreterie di partito, e dunque il Parlamento che ne è ormai solo un'emanazione, sono screditati, il Colle non lo è affatto. Anzi, proprio il basso tasso di fiducia nell'istituzione che dovrebbe essere la più centrale di tutte, il Parlamento, determina l'impennata del Colle, individuato ormai da molti come la sola istituzione ancora autorevole e rassicurante. La premier, pur di evitare che gli elettori interpretassero il referendum come un voto sui poteri non del premier ma del presidente, ha sacrificato una parte essenziale del premierato, il simul stabunt simul cadent, l'automatismo tra caduta del premier eletto e scioglimento delle Camere. Non è bastato e gli interventi di Mattarella anche su questioni apparentemente secondarie come gli insulti contro la stessa premier o le cariche di Pisa e Firenze dimostrano che il capo dello Stato ha tutte le intenzioni di sottolineare ed esaltare l'importanza del suo ruolo e dei suoi moniti con una frequenza che per la premier è quanto di più allarmante.

La retromarcia plateale nella polemica con il Quirinale sulle cariche, il nervosismo palpabile nell'incontro con i giornalisti a Montreal quando si è arrivato alla nota dolente dei rapporti con il Colle dimostrano quanto Meloni sia ora allarmata. Il referendum è un rischio e si tratta di una partita in cui l'intera posta è sul tavolo. Dunque il percorso battendo il quale si arriverà alla prova decisivo può risultare determinante. Il più volte citato precedente Renzi è eloquente: l'allora premier arrivò al referendum sulla sua riforma costituzionale - molto meno radicale di quella proposta adesso - dopo la sconfitta secca alle Regionali. Renzi si illudeva di prendersi una rivincita con gli interessi nel voto sulla riforma: in realtà la sconfitta alle Regionali pavimentò il percorso verso la disfatta. È un incubo ancora lontano anni luce dall'orizzonte di Giorgia Meloni. Ma se in Abruzzo la destra dovesse essere sconfitta di nuovo pur se distante all'orizzonte innegabilmente inizierebbe a comparire davvero.