Dopo la kermesse della Leopolda, sono due - entrambe importantissime ed entrambe attinenti al Pd - le questioni che vanno analizzate. La prima riguarda i coretti "fuori, fuori" rivolti dalla convention renziana (con tratti più simili ad una curva di ultras che di una platea politica) a D'Alema singolarmente e alla minoranza di Bersani in toto. La domanda è: se sul serio il premier desse seguito a quella richiesta, dopo l'eventuale "cacciata" risulterebbe più forte o più debole?La seconda questione concerne i rapporti di forza tra lo schieramento del Sì e quello del No così come fotografati nelle ultime settimane dai sondaggi: 48 per cento al primo; 52 per cento al secondo. Pur scontando l'inevitabile beneficio d'inventario di tali rilevazioni, se davvero finisce così cosa ne sarà della parabola renziana.Verrà inesorabilmente troncata o invece continuerà, magari mutando forma e atteggiamenti? Com'è facile comprendere, si tratta di due quesiti intimamente legati, da cui dipende la sorte del governo, forse della legislatura e certamente quella della classe dirigente piddina.Vediamo. E' palese che a Renzi attaccare la sinistra dem, più che mai adesso che è orbata dei distinguo di Gianni Cuperlo, fa gioco. Si tratta di un gruppetto spurio, privo di leadership credibile, carente sotto il profilo della proposta programmatica. Lasciamo stare la querelle su presunti torti e ragioni, su chi provoca chi, su chi ha cominciato per primo: battibecchi da cortile che non appassionano l'opinione pubblica, compresa quella di sinistra. La realtà è che per il segretario la sinistra interna rappresenta un bersaglio comodo, a portata di mano, facile da colpire e affondare. Un esercizio che inoltre consente di radicare la storytelling renziana della rottamazione contro il "vecchio" che «ha sempre perso» e ad altro non punta se non dare «una spallata al governo» e alla leadership emersa vittoriosa dalle primarie. Sul fronte opposto, del resto, gli affondi sempre più acuminati di Renzi consentono a Pierluigi Bersani ed ai suoi di ritrovare il senso di un'avventura politica che i risultati delle ultime politiche avevano devastato fin quasi all'azzeramento, e il ripiegamento sulla rielezione di Giorgio Napolitano evidenziato con modalità politicamente addirittura drammatiche. Come osserva il comunista Marco Rizzo: «D'Alema e co. hanno giocato a fare gli apprendisti stregoni. Poi lo stregone è arrivato davvero: Matteo Renzi. E li ha schiantati». Al dunque: se, dopo la vittoria del Sì, arriva la scissione, chi ci guadagna?Rispondere non è semplice. Però alcune conseguenze appaiono inevitabili. Se vince il Sì, il Pd così come era stato fondato cessa di esistere e si traforma nel PdR, il partito di Renzi. Il processo di adeguamento della formazione politica sui tratti del suo capo diventa irreversibile, secondo un copione già sperimentato da Silvio Berlusconi e ripreso alla grande da Beppe Grillo. Il leader plasma il partito a sua immagine e somiglianza; l'opposizione, se c'è, non può che acconciarsi ad un ruolo subalterno. O, appunto, fuoriuscire.Sarà così? Forse.Ma che succede se invece vince il No?E' la risposta da dare alla seconda domanda. Con il Sì sconfitto, la cavalcata rottamatoria subisce un non trascurabile stop. Renzi perde una battaglia fondamentale, la sua leadership ne risulta ammaccata in modo evidente. Fino a che punto? Chi lo conosce o lo segue per vari motivi, assicura che darà seguito a quanto promesso: poiché è una battaglia che chiama in causa direttamente chi l'ha impostata e condotta, in caso di risultato negativo non c'è altra strada che quella di rassegnare le dimissioni. Da palazzo Chigi, of course. Poi toccherà al capo dello Stato dipanare la matassa. Impresa non facile perché il fronte del No è variegato, gonfio di umoralità e disegni politici che mal si conciliano l'un l'altro. Più che un esercito capace di alternativa, è l'assemblaggio della ribellione verso lo statu quo. Amalgamare un simile concentrato può anche risultare impossibile se non altro perchè non lo vogliono proprio i principali componenti. Appunto: questione in capo al Quirinale.Che succede invece nel Pd e in generale nell'equilibrio politico complessivo, di "sistema" per intenderci? La minoranza dem, come evidenziato, non appare in grado di produrre un ricambio - negli uomini e nelle scelte politiche fondamentali - all'altezza della situazione. Non a caso insiste affinché Renzi non dia seguito agli annunci e invece rimanga dov'è, sia al Nazareno che alla guida del governo. Il motivo è evidente: non c'è nessuno in grado di sostituirlo. Per identiche, ancorché opposte motivazioni, il premier ha avvertito con nettezza di non essere disponibile: «Non mi faccio rosolare, niente governicchi»; meglio le elezioni anticipate.Ma queste sono schermaglie. Il punto vero è che se le percentuali finali restano quelle attuali, l'ex sindaco di Firenze diventa "mister 48%". E ci diventa in prima persona, visto che nella campagna elettorale e in tutta la partita referendaria Matteo balla da solo. Agli altri lascia, quando va bene, il ruolo di comprimari. Alle elezioni europee il Pd fresco renziano superò la, fino ad allora per la sinistra, inimmaginabile asticella del 40 per cento. Con il referendum, Renzi seppur sconfitto, salirebbe ancora più in alto, quasi a toccare la maggioranza da solo. Un risultato epocale: se non l'apoteosi della vocazione maggioritaria, quasi. E' possibile che un uomo politico capace di assemblare il 48 per cento dei consensi popolari possa stare da parte o esservi messo a forza? L'interrogativo è retorico; la riposta, per forza di cose, pure. Certo, quel 48 per cento risplende sì ma fino ad un certo punto: è un composito che può smembrarsi così come si è aggregato. Però le coordinate generali non cambiano. E dunque se Renzi vince, vince, e non farà prigionieri. Ma anche se perde, il capitale di consenso incassato avrà ancora corso. Di più: sarà preponderante. Basta così? Non ancora. Se vince il No, sia per il premier che per tutti gli altri sarà obbligatorio uno sforzo di gestione politica del risultato. Intesa sia come amministrazione delle questioni più urgenti, sia come capacità progettuale finalizzata alle elezioni politiche. Proprio la merce più rara che c'è.