Fragore di sciabole, bisbigli d’improbabili intese. Le elezioni siciliane sono andate come previsto, e il prosieguo s’adegua. Nel Pd i frondisti escono allo scoperto, chiedono al capo un passetto indietro: non la segreteria, ma almeno la candidatura. Le cronache, in compenso, si riempiono di voci e indiscrezioni sull’imminente resurrezione del centrosinistra, con un Pd non più imperiale ma disposto a coalizzarsi davvero con la sinistra.

La lista dei petulanti affollati intorno alla corte del Nazareno è da gotha dem: il capo dei deputati Rosato, targato Franceschini ma sempre più spostato verso Renzi sino a ieri, butta là Gentiloni. Il collega guida dei senatori Zanda, sfuggito per un pelo alla rottamazione e a lungo impegnato nel mostrare gratitudine, suggerisce che forse due ruoli, segretario e candidato, sono uno sproposito. Sullo sfondo la silhouette di Franceschini si staglia, Orlando nemmeno ha bisogno di nascondersi. Qualche buontempone azzarda l’ipotesi Minniti, e va da sé che un candidato adorato dalla destra sia l’ideale per ricucire con la sinistra.

Perché in fondo buona parte della posta in gioco è proprio quella: riportare all’ovile l’Mdp, evitare una presenza reale alla sinistra del partitone, bloccare per tempo la minaccia Grasso. L’ex segretaria Serracchiani vuole «riunire il centrosinistra Mdp incluso sennò vince il populismo». Persino Renzi allude a non meglio chiarite aperture e comunque giura «niente veti».

Sono chiacchiere in libertà, rumore di fondo. Le chances di una coalizione che veda insieme il Pd e Mdp sono sotto lo zero, come Massimo D’Alema ha chiarito per tempo invocando il «netta discontinuità di programmi e di leadership», o per farla breve la testa di Renzi e anche il corpaccione intero.

A fare un passo anche solo da formica indietro il ragazzo di Rignano non ci pensa per niente e lo ha chiarito anche lui senza mezzi termini: «Non mollo. Possiamo arrivare al 40%».

A vanificare le fantasie sulla ricomposizione a sinistra e sull’abdicazione di Renzi in seguito alla mazzata siciliana vale una pletora di motivi po- litici. Ma anche i caratteri e i rapporti personali ci mettono lo zampino: la personalità di Massimo D’Alema e Matteo Renzi, nonché il rapporto di reciproca conflittualità insanabile che li accomuna. L’ex presidente del consiglio coi baffetti è stato descritto sin troppo spesso come una specie di serial killer della politica. È un’esagera-zione ma non priva di qualche fondamento reale. D’Alema in questi casi è un rullo compressore, e non si ferma fino a quando non ha lo scalpo del nemico di turno appeso alla cintura. Ne sanno qualcosa Achille Occhetto e Romano Prodi, solo per citare i nomi più altisonanti. Farselo nemico è stato per Renzi un’imprudenza grave.

In un solo caso il Terminator in questione ha evitato il colpo di grazia: quando si è trovato di fronte Walter Veltroni. Ma quello, si sa, è un rapporto particolare, che sfiora la relazione complessa che sta tra l’amico/ nemico e l’amore/ odio. I due sono stati, a modo loro, i ' cavalli di razza' dell’ultimo Pci e dei partiti eredi, Pds e Ds. Perennemente duellanti ma alla fine sempre capaci di ricomporre e spartire in nome di una specie di vincolo quasi generazionale. Non è neppure detto che l’ultimo valzer sia già stato suonato, perché se in un futuro più o meno lontano il Pd tenterà davvero di ricomporre non è affatto escluso che si affidi proprio a Walterino, l’unico leader riconosciuto da tutto il Pd come santone e allo stesso tempo in grado di riprendere il filo di un dialogo con figure come Bersani o appunto D’Alema.

In tutti gli altri casi, però, D’Alema non ha mai esitato di fronte al colpo di grazia e certamente non capiterà stavolta, dal momento che un’inimicizia così non la si vedeva dai tempi della sfida per la vita o per la morte politica con Achille Occhetto. Il duello, stavolta, si fermerà solo quando uno dei due ex premier soccomberà.

Non era scritto che andasse così. Forse sarebbe stato però possibile un rapporto non di estrema ostilità. A mettersi di mezzo, anche in questo caso, è stato il carattere, segnatamente quello del fiorentino. Non è questione di rottamazione. Se del caso, il rottamatore ha sottratto allo sfasciacarrozze un certo numero di arnesi politici a suo giudizio ormai usurati. Ma lo ha sempre fatto chiedendo in cambio una piena sottomissione, anche a costo di figure non esaltanti come quelle toccate all’allora presidente della commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro, al capo dei senatori Zanda o allo stesso Rosato, sempre in odore di eccessivo franceschinismo. L’obbligo di portare rispetto non è mai stato nelle corde di Renzi, né ha mai ritenuto che fosse necessario coltivare quella dote. Lo sgarbo segnato dal negare a D’Alema la nomina a commissario europeo agli Esteri preferendogli l’inespertissima Mogherini è stato definitivo non tanto per la poltrona in sé quanto appunto per l’esercizio di potere che comportava.

Del resto è sempre una questione di carattere quella che proibisce a Renzi il passo indietro invocato da tanti. L’uomo è un giocatore d’azzardo e non un pokerista come il rivale, uno di quelli che se perde punta il doppio, e se la sorte non arride ancora prova a quadruplicare. Il gioco d’attesa, la pazienza necessaria per attendere il momento giusto per vibrare il colpo gli sono estranei.

Il duello finale sarà nelle urne in quel momento. Se Renzi ne uscirà fortemente penalizzato e la coalizione di sinistra, che ci sarà e sarà quasi certamente guidata proprio da Grasso, otterrà un buon risultato la parabola del ragazzo di Rignano sarà stata solo una meteora e a restare in campo saranno i baffi ormai brizzolati di D’Alema. Se invece in un modo o nell’altro Renzi porterà a casa una percentuale alta e il soggetto destinato a nascere in novembre non sfonderà, sarà la carriera dell’ultimo vero leader del Pci a terminare.