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Di fronte all’insistenza pentastellata, il premier ha concesso un’informativa ribadendo concetti noti
Difficile immaginare un dibattito più spento, per non dire moscio, di quello che si è svolto ieri in Parlamento sull'Ucraina. Draghi avrebbe preferito derubricare l'occasione a risposta sul question time. Di fronte alle insistenze soprattutto dei 5S si è rassegnato a un'informativa senza voto ma ha svolto il compito esattamente come se si trattasse di un question time. Non ha aggiunto una sola virgola a quanto già detto da Washington. Non ha aggiunto una sola informazione a quelle già in possesso di chiunque si prenda la briga di sfogliare un giornale, aprire un sito internet, accendere la tv. Ha confermato l'impegno a favore di una trattativa ma ha anche ripetuto che le condizioni deve deciderle Zelensky e poco male se la contraddizione è stridente. Ha taciuto sul piano di pace italiano, notificato al colto e all'inclita non da palazzo Chigi ma dalla stampa. Ha sorvolato sul braccio di ferro in corso tra Eni e Ue sul pagamento in rubli del gas russo.
I parlamentari, con poche eccezioni, non sono stati da meno. Certo a guardar bene qualche elemento clamoroso lo si potrebbe cogliere. Al Senato Andrea Cangini, per Fi, ha usato toni sideralmente distanti da quelli del Cavaliere d'Arcore. La linea di FdI è suonata identica a quella del Pd, pur se declamata con toni ben più stentorei e bellicosi. In un confuso intervento Matteo Salvini è parso al contrario vicino alle posizioni di Conte e, per usare un eufemismo, titubante sull'invio delle armi, in questo però con toni molto più dimessi. I 5S hanno insistito nella richiesta di un voto che non sa se arriverà. Secondo voci da palazzo Chigi Draghi potrebbe decidere di far precedere al Consiglio europeo del 30 e 31 maggio non una ulteriore informativa ma una vera comunicazione, con tanto di risoluzioni votate. Lo farà però, probabilmente, solo se sicuro dell'esito del voto, dunque dopo un accordo preventivo accettato da tutta la maggioranza. Perché in questo momento il capo del governo italiano tutto vuole tranne che essere snidato, costretto a uscire da un'ambiguità che ritiene necessaria. La formula ' trattativa ma solo alle condizioni di Zelensky', ad esempio, è giustamente criticata perché contraddittoria. Ma proprio quella contraddizione permette a Draghi di adoperarsi con i leader degli altri principali Paesi europei, Francia, Germaia e Spagna, per avviare il negoziato al riparo dagli attacchi che lo bersaglierebbero, e probabilmente lo fermerebbero, senza quella professione di fede nell'ultima parola assegnata al leader ucraino. Allo stesso modo, Draghi è consapevole del ruolo limitato che spetta all'Italia nella decisione su quali armi consegnare all'Ucraina: non saranno le forniture italiane a fare la differenza ma quelle americane. Su quel fronte è addirittura Biden a resistere alle pressioni di Kiev, negando i missili a lunga gittata che potrebbero colpire la Russia. Che senso avrebbe, pertanto, spostare l'Italia nell'occhio di un ciclone politico per una scelta destinata a incidere ben poco? La stessa partita sul pagamento del gas russo è di quelle che vanno giocate con massima discrezione, senza toni che suonino come sfida palese alle indicazioni di Bruxelles. II comportamento di Draghi è certamente comprensibile, soprattutto alla luce della logica che è sempre la stella polare per l'ex presidente della Bce, quella del massimo pragmatismo. Sul piano della politica, però, il prezzo che si finisce per pagare è per qualcuno molto elevato. I partiti più dubbiosi, come M5S e Lega, pagano infatti prese di posizioni che, non arrivando mai ad alcun risultato concreto, suonano solo come fastidiosa propaganda e attestato di impotenza. Capita così che mentre nel Paese la posizione maggioritaria sarebbe favorevole a una politica meno schierata a fianco di Washington, i consensi registrati dai sondaggi vadano proprio a chi invece è più allineato alla strategia degli Usa e della Nato, a FdI al Pd e, in termini di gradimento personale a Draghi. La situazione è particolarmente drammatica per la Lega, avviata a ripetere, in forma accentuata, lo stesso errore commesso con le inutili e querule proteste contro il Green Pass. Ma stavolta le elezioni sono molto più vicine, la tensione ben più alta e non è affatto detto che Salvini e Conte non finiscano nei prossimi mesi per dover tradurre i loro strepiti a vuoto in voti sonanti e in crisi aperta.