Qualcuno dovrebbe chiedere scusa al "Marziano". Ignazio Marino è stato assolto dalle accuse di falso, peculato e truffa. Imputazioni «infamanti» - le definisce il chirurgo - che il 30 ottobre 2015 lo hanno costretto a dimettersi da sindaco di Roma. Il processo appena concluso riguardava due filoni di indagine: quello sulle cene pagate con la carta di credito del Comune, per cui il gup Pierluigi Balestrieri ha ritenuto che «il fatto non sussiste», e quello relativo alle presunte irregolarità su alcune consulenze della onlus Imagine di cui Marino era presidente, che per il giudice «non costituisce reato».Pochi giorni fa, l'accusa aveva chiesto per l'ex sindaco una condanna di tre anni, un mese e dieci giorni. E il Campidoglio, parte civile nel processo, un risarcimento di 600 mila euro, per danno di immagine. Al "Marziano" venivano contestate 56 cene - consumate in due anni - pagate con la carta di "rappresentanza" per un totale di 12.700 euro. Secondo i pm, smentiti dal Tribunale, il chirurgo avrebbe in realtà mangiato insieme a «commensali di sua elezione» come «congiunti e altre persone non identificate», soprattutto «nei giorni festivi e prefestivi».Ma quello che i media hanno ribattezzato "scontrino gate" si è rivelato un teorema inconsistente. Sufficiente però a interrompere bruscamente l'esperienza di Ignazio Marino in Campidoglio, silurato dal suo stesso partito, il Pd, non con un voto di sfiducia in Aula ma con le dimissioni in blocco dei consiglieri dem formalizzate davanti a un notaio. «Sono felice me lo aspettavo, sapevo di essere innocente. Non ho mai smesso di credere nella giustizia», commenta a caldo l'ex primo cittadino. Marino è sollevato: «Per me questa decisione ha soltanto il valore di ripristino della verità e della conseguente mia interiore tranquillità», dice. Ma non rinuncia a togliersi qualche sassolino dalla scarpa e aggiunge: «Nei giorni e nei mesi che verranno ci sarà la necessità di interrogarsi sulle responsabilità che alcuni uomini e donne della politica hanno avuto in questa vicenda». Il riferimento è rivolto soprattutto al suo partito. Bersaglio numero uno: Matteo Orfini, presidente del Pd e commissario della federazione romana ritenuto il regista dell'operazione notarile.Marino non pronuncia il suo nome, ma il giovane turco capisce al volo e su Facebook chiarisce: «Ricordo a tutti che non chiedemmo le dimissioni di Marino per la vicenda scontrini. Fu Sel a farlo con una mozione poi ritirata alla quale - non a caso - non ci accodammo», precisa. «Ne abbiamo chiesto le dimissioni - e questo abbiamo sempre detto - per la sua incapacità a risolvere i problemi di Roma. Incapacità alla quale ancora paghiamo un prezzo altissimo».Orfini non è affatto pentito, anzi, rivendica con forza quella posizione: «Politicamente non cambia una virgola sulle ragioni che hanno motivato le scelte di allora». Al presidente del partito Marino replica poco dopo, in conferenza stampa: «Non me la sento di commentare parole che, evidentemente, appartengono ai libri di Collodi. Sulla capacità di governare dico solo tre cose: la mia giunta, dopo 50 anni, ha chiuso Malagrotta, ha aperto 21 stazioni della metropolitana, ha chiuso quello scandalo dei residence che arricchiva con 40 milioni di euro l'anno i costruttori e impoveriva le famiglie», contrattacca.Il "Marziano" calca la mano, parla di centinaia di migliaia di romani «violentati nella loro scelta democratica da un piccolo gruppo della classe dirigente che si è rifugiato nello studio di un notaio invece di presentarsi in aula e spiegare perché avevano fiducia o meno nel loro sindaco». E sulle scuse ancora non arrivate da parte del suo partito, il chirurgo conclude: «Le scuse di qualcuno che ha fatto un'offesa, non sto parlando presidente del Consiglio o dell'illuminato commissario del Partito democratico della Capitale, in generale richiedono capacità di analisi, umiltà e onestà intellettuale. Sono sicuro che, sulla base di queste tre doti, ognuno deciderà se scusarsi o no».