Sarà stato greve, irrituale e inopportuno. Ma l'imputato di Mafia Capitale che l'altro ieri ha urlato dalla gabbia «so' du' anni che stamo qua» sembra avere le sue ragioni. Si chiede perché ci voglia tanto ad appurare che nel procedimento sul "sistema Buzzi-Carminati" non ricorrano i segni del metodo mafioso. E perché si debba attendere che un ex capo del reparto investigativo dei Ros come il maggiore Francesco De Lellis risponda che «no», nell'acquisizione degli appalti non c'era il ricorso all'intimidazione violenta. Se non ci fosse l'ombra del 416 bis, e davvero qui l'imputato ha i suoi motivi per imprecare, non si sarebbe arrivati per esempio a misure cautelari tanto lunghe come quelle ordinate al processo nell'aula bunker di Rebibbia. C'è un altro passaggio chiave, nell'udienza di martedì scorso: la deposizione dell'altro ex ufficiale del Ros Massimo Macilenti, l'investigatore dalle cui ricerche sul "Nero" Carminati si è acceso il motore dell'inchiesta. Il carabiniere - oggi, come De Lellis, passato ai Servizi - spiega che le indagini condotte sull'ex Nar nel 2010 fecero emergere ipotesi di «associazione a delinquere per riciclaggio». Successivamente, il lavoro fu ereditato da altri militari dell'Arma, che senza aver acquisito ulteriori elementi significativi inserirono l'ipotesi del metodo mafioso nell'informativa girata ai pm di Roma. Secondo l'avvocato di Carminati Giosuè Bruno Naso, quello è il momento in cui viene operata una forzatura nell'esame dei dati investigativi. Sul primo dei due aspetti, ancor più che sul secondo, la difesa segna un punto importantissimo a proprio favore. La lettura così diversa, rispetto a quella del reparto anticrimine, che De Lellis dà dei reati commessi da Buzzi e Carminati rimanda alla possibile forzatura che i pm potrebbero aver commesso in sede di valutazione del materiale d'indagine. Nel decidere se il "sistema" messo in piedi dall'ex Nar e dal capo delle coop rosse fosse connotato dal metodo mafioso, gli inquirenti potrebbero aver ceduto a una tentazione che si direbbe ricorrente: il dietrologismo. La si potrebbe definire come "ossessione per la zona grigia". È quella continua ricerca del rimando a mandanti lontani, trame remote, motivazioni oscure. È probabilmente la logica che ha ispirato le tesi accusatorie al processo Stato-mafia. E che anche lì tende progressivamente a sgretolarsi. Con le motivazioni della sentenza Mannino lo si è osservato in modo minuzioso. Secondo il gup Marina Petruzzella, la Procura di Palermo ha colto in quel caso «elementi di sospetto» che «non hanno autonoma natura indiziaria». Ha letto i contatti dell'ex ministro dc con i Ros non come richiesta di protezione dal rischio di subire attentati mafiosi ma per un tentativo di orientare lo Stato a intavolare la presunta trattativa con Cosa nostra. Di fronte a due possibilità, anche nella vicenda palermitana gli inquirenti scelgono quella che rimanda all'idea della manipolazione occulta e di una verità sconvolgente. Se davvero il processo Mafia Capitale sia destinato a un esito analogo a quello di Mannino è ovviamente da dimostrare. Ma che la magistratura ceda a volte alla tentazione a spiegare gli eventi del Paese col presunto disvelamento di trame o verità inconfessabili, questo sembra difficilmente confutabile. È forse sensato cominciare a chiedersi come si sia consolidato un simile schema nella valutazione dei fatti. E una risposta potrebbe trovarsi nell'evento giudiziario che molte vicende anche attuali continuano a evocare, ossia Mani pulite. Al di là di ogni altro significato, quell'inchiesta porta il segno di un'enorme operazione di disvelamento rispetto alle pratiche del potere. Non si trattò probabilmente di un'effettiva "scoperta": il fantasma della corruzione si aggirava da anni nel non detto della politica. Ma l'impianto scenografico dell'indagine avvalorò l'idea di una pentola del malaffare improvvisamente scoperchiata. Nasce forse lì il continuo anelito delle Procure al nesso che dischiude in modo clamoroso una verità nascosta, seppur difficile da dimostrare. Mani pulite aveva corpo e sostanza. Il processo Mafia Capitale (rispetto alla supposta sussistenza dell'associazione mafiosa) e quello sulla "trattativa" sono assai meno irrobustiti dalla realtà dei fatti. Entrambi sembrano franare: nel caso palermitano, per le sentenze dei processi collegati a quello principale, in quello romano per testimonianze di peso come quelle dei Ros e di Raffaele Cantone. Ma a ben vedere, è la logica della dietrologia a tutti i costi, che mostra le proprie debolezze. Una verifica dal costo processuale assai elevato, ma che è forse salutare per la giustizia italiana.