Tra 66 giorni si vota ed è persino possibile che le elezioni partoriscano un governo. Sarebbe una sorpresa, però, e al momento neppure lo scommettitore più incallito punterebbe a cuor leggero sul lieto eventi. Nei corridoio dei Palazzi le volpi navigate optano piuttosto per una seconda prova elettorale più o meno a breve e la formula “secondo turno” è di uso comunissimo, anche se la legge elettorale in vigore, e chissà per quanto, non lo prevederebbe.

Il rischio di elezioni a vuoto e la quasi certezza che se una maggioranza si potrà formare sarà comunque diversa da quelle che si sono presentate alle elezioni non depongono a favore della salute della democrazia italiana. Ma nessuno se ne preoccupa più che tanto, il belpaese essendo stavolta in copiosa e ottima compagnia.

La Germania, luminoso faro e guida del continente, Paese dove i treni sono per definizione sempre in orario, ha votato lo scorso 24 settembre. Sono passati tre mesi e di una maggioranza non si vede l’ombra. Non è escluso che si formi, ma bisognerà aspettare pasqua. Poi, se proprio necessario, si tornerà a votare.

La Spagna è rimasta a corto di governo per un anno e lì non è bastato neppure il secondo turno. Fu- mata nera nelle elezioni del 2015, stesso mesto colore in quelle dell’anno seguente. Alla fine l’esecutivo è nato, però “di minoranza”, dunque traballante e legittimato solo a metà.

Il Belgio è rimasto senza governo per 541 giorni dopo le elezioni del 2010 ma nessuno si è stracciato le vesti. Con o senza governa l’economia volava e del resto risultati non molto diversi si sarebbero registrati poco dopo in Spagna.

L’Olanda un governo ce l’ha, ma è rimasta senza per 208 giorni dopo le elezioni dello scorso marzo. Mark Rutte, peraltro, ha potuto prendersela comoda senza patemi. A esecutivo vacante l’Olanda ha registrato il record di crescita in 10 anni.

Un po’ di anni fa, in realtà neppure tanti, una situazione del genere sarebbe stata da allarme rosso. L’idea che mezza Europa impieghi mesi a dotarsi di un governo e di una maggioranza, spesso dovendo ripiegare su alleanze “spurie”, cioè contrastanti con la campagna elettorale sarebbe sembrata più o meno inconcepibile. Poteva capitare a volte: in Olanda era già capitata una simile emergenza nel 1977, ma erano eccezioni, non la regola. Ma l’elemento davvero eccezionale e nuovo non è la difficoltà nel dar vita a governi e maggioranze parlamentari, faccenda che può comunque essere risolta pervia di ingegneria istituzionale ed elettorale. L’elemento che dovrebbe far riflettere è la possibilità di resistere e anzi di trovarsi in condizioni migliori nonostante crisi che prolungano per mesi e anni. Certo un governo serve, ma in questi casi c’è sempre quello in carica prima delle elezioni, che resta al proprio posto per il disbrigo della “ordinaria amministrazione”. Basta bussare alla porta di qualsiasi ministero italiano per verificare che Gentiloni e i suoi ministri non sono affatto sicuri di aver esaurito il loro compito: per forza evitano “di tirare i remi in barca”, come da eloquio gentiloniano.

Sono governi dai poteri limitati, e proprio questo dovrebbe essere il guaio. Invece non lo è, dal momento che le scelte davvero essenziali non competono più a quei governi ma sono state di fatto avocate da istituzioni sovranazionali. Al contrario, la debolezza dei governi di “ordinaria amministrazione” può rivelarsi un vantaggio. A differenza dei governi politici regolarmente eletti, infatti, non devono rendere conto agli elettori, possono muoversi, e soprattutto non muoversi, liberamente senza tutti quei “lacci e lacciuoli” che ai bei tempi mandavano il Cavalier Berlusconi fuori di testa. La sovranità è già in larghissima misura una finzione, ma una finzione che complica le cose dal momento che i partiti di governo, a differenza delle istituzioni sovranazionali e sovrane a cui rispondono, devono tenere sempre un occhio spalancato sui sondaggi e sugli indici di gradimento.

I Parlamenti, invece, si rivelano qui del tutto superflui. Già hanno poca voce in capitolo sulle questioni essenziali e comunque, grazie alla tagliola formata dal binomio “decretazione d’urgenza- voto di fiducia”, solo in pochissime occasioni dispongono di una sostanziale libertà di voto. La conclamata possibilità per un Paese di andare avanti come se nulla fosse anche in assenza di maggioranza parlamentari ne mette a nudo l’impotenza, solitamente mascherata dalle stentoree dichiarazioni di principio sulla “centralità del Parlamento”.

E’ possibile, in fondo, che la democrazia rappresentativa, per come la abbiamo conosciuta negli ultimi due secoli, sia arrivata al capolinea e che la vera partita epocale, in realtà appena cominciata, riguardi proprio quel che la sostituirà.