Sulla carta “la politica”, termine idiomatico col quale s'intendono in realtà i partiti, ha vinto la sua battaglia. Voleva impedire a tutti i costi l'elezione di Mario Draghi alla presidenza della Repubblica e ci è riuscita. Ma si tratta di un esito tanto rovinoso per i vittoriosi e tanto vantaggioso per lo sconfitto che potrebbe a buon diritto sostituire il classico modo di dire “vittoria di Pirro”.

Al netto dei risentimenti personali, che per Berlusconi e Conte hanno fatto premio su tutto, e di alcuni seri ragionamenti politici, la decisione di bloccare l'elezione di Draghi mirava a dimostrare e restaurare la centralità di una politica spinta ai margini dal governo dell'ex presidente della Bce. Intendeva ristabilire rapporti di forza sbilanciatisi a favore di un esecutivo quasi del tutto svincolato dal condizionamento di chi, sulla carta, gli permette di esistere, del Parlamento e delle segreterie di partito. La politica voleva ribadire la propria forza.

Giusta o sbagliata che fosse, quell'ambizione imponeva però l'essere in grado di eleggere un presidente diverso da quello affondato. Missione tutt'altro che impossibile. Nel 2013 la riconferma di Napolitano fu conseguenza di un terremoto imprevisto che aveva appena squassato l'intero villaggio della politica. Poche settimane prima le elezioni politiche avevano abbattuto inaspettatamente l'equilibrio bipolarista sul quale si reggeva il Paese da quasi due decenni. Confusione e smarrimento erano inevitabili. I partiti non riuscivano neppure a parlarsi e lo stallo rendeva impossibile anche solo parlarsi. Stavolta l'elezione del capo dello Stato è avvenuta a fine legislatura, senza sorprese, almeno negli ultimi mesi, e con quasi tutti i partiti nella stessa maggioranza. Negare a Draghi la nomina imponeva di conseguenza la capacità di individuare un altro presidente.

La politica non ci è riuscita e ha fallito nel modo peggiore perché più sgangherato, coprendosi a volte di ridicolo, mandando allegramente a farsi massacrare la seconda carica istituzionale dello Stato, rivelando l'impossibilità di dialogare non solo all'interno della composita maggioranza ma anche nei singoli partiti. Le coalizioni, entrate in campo proclamando stentoree un'indistruttibile unità, si sono macerate nelle guerriglie interne, consumate in un vortice di sfiducia e diffidenza reciproca, quella sulla carta più strutturata, il centrodestra, si è apertamente frantumata.

Alla fine la sola via d'uscita è stata l'invocazione rivolta a Mattarella affinché facesse quel che lui stesso aveva dichiarato essere un gravissimo segno di debolezza del sistema: accettasse la rielezione. Era uno dei due possibili presidenti indicati da Draghi come quelli con i quali avrebbe certamente accettato di rimanere alla guida del governo, l'altro essendo Giuliano Amato da due giorni presidente della Corte Costituzionale. La rielezione di Mattarella è una vittoria di Draghi e non ci sarebbe da stupirsi se, dopo le elezioni dell'anno prossimo, il ripresidente facesse il possibile, pur senza mai esorbitare neppure di un millimetro dai limiti costituzionali del suo ruolo, per un nuovo e più longevo governo Draghi.

Lo spappolamento delle coalizioni tira sin d'ora in quella direzione ma spinge in quel senso la vittoria netta dei leader “draghiani” nei partiti dilaniatisi. Nella Lega Salvini è uscito dalla prova ancor più demolito che dal Papeete ed è eloquente il fatto che Giorgetti abbia di fatto messo sul tavolo le sue possibili dimissioni dal governo perché stanco di una Lega che non valorizza mai i meriti e i risultati dell'esecutivo. Nel M5S Conte, leader già fragilissimo, si è rivelato del tutto inconsistente a tutto vantaggio del ben più strutturato rivale Di Maio. In Fi la sfida del Cavaliere, finita con l'asserragliamento dello stesso al San Raffaele, rafforza Brunetta e la delegazione al governo nei confronti dello scialbo Tajani. Nel Pd il braccio di ferro tra Letta e Franceschini, che mirava sia a bocciare Draghi che a far eleggere Casini, si è risolta a tutto vantaggio del segretario. Letta aveva puntato sin dall'inizio sul gioco di rimessa che sulla doppia carta Mattarella- Draghi. I fatti gli hanno dato ragione.

E' appena il caso di notare che Giorgetti, Di Maio, Letta e Brunetta sono precisamente i rappresentanti più eminenti di quel “partito draghiano” trasversale che esiste in tutte le forze politiche. E al Quirinale, è di nuovo nel pieno delle sue funzioni e anzi persino rafforzato il presidente che ha voluto e vuole fortemente Draghi a palazzo Chigi.