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Le argomentazioni ufficiali sono un atto di galanteria istituzionale: «C’è ancora tanto lavoro da fare», «è necessaria una continuità dell’azione di governo». Ma dietro al muro alzato dal Movimento 5 Stelle per bloccare la scalata di mario Draghi al Quirinale c’è molto di più di una “semplice” preoccupazione per le sorti del Paese. Le motivazioni del no al premier, in casa pentastellata, sono molteplici e spesso si sovrappongono: si va dalla naturale ostilità nei confronti di chi venne chiamato a sotituire il disarcionato Giuseppe Conte, alla paura di fine anticipata della legislatura, fino all’avversione ideologica. «Draghi è un autoritario, vuole decidere sempre tutto lui, non sa cosa sia il confronto», rispondono i parlamentari a registratori spenti. «E si può mandare una persona così al colle per trasformare il Quirinale in un principato? Ma basta», proseguono le voci critiche, noncuranti del rischio di un addio anticipato del premier in caso di mancata elezione. «Secondo me un altro governo nasce comunque», dice una deputata, «e in ogni caso, ma davvero pensate che ragioniamo solo nell’ottica di qualche mese in più di stipendio? Stiamo comunque parlando di pochi mesi, mica di anni, prima della fine naturale della legislatura» . Pochi mesi di stipendio in più non saranno un’argomentazione nobile, ma neanche una variabile da non tenere in considerazione, soprattutto per quell’esercito trasversale di parlamentari consapevoli di essere arrivati a fine corsa. «Il problema è il giudizio politico», sottolinea alzando il tono della voce la deputata scettica, «Draghi non è stato poi così efficiente nella gestione della pandemia, ad esempio. Basti pensare a tutta la confusione fatta sulla durata del green pass, al tracciamento sparito e così via», aggiunge, prima di concludere con un tocco di perfidia tutta grillina: «Persino Conte avrebbe fatto meglio».
E così, il partito di maggioranza relativa in Parlamento e al governo si trova, alla vigilia dell’elezione del nuovo presidente, a brigare perché Draghi non si muova dal suo posto, a costo di mettere a repentaglio la tenuta della maggioranza e l’alleanza col Pd, l’unico partito ad essersi mostrato esplicitamente favorevole a un trasloco del premier al Quirinale. A Conte, del resto, potrebbe anche non dispiacere un ritorno anticipato alle urne: un’occasione unica di sfruttare la scia di popolarità ancora rimasta e di liberarsi di truppe parlamentari anarchiche. L’ex premier, del resto, non ha mai digerito la spallata subita a inizio anno, né ha mai pardonato a Draghi le scelte sulle nomine Rai e i giudizi sprezzanti sul superbonus al 100 per cento. Per questo ora il capo 5S gioca di sponda con la parte grillina che voterebbe chiunque pur di non scrivere il nome dell’ex presidente della Bce sulla scheda. Il problema è che questo chiunque dovrebbe in ogni caso uscire dal cilindro di qualche altro partito, perché il M5S non ha nomi da proporre al momento. Nemmeno uno. «Conte non li fa i nomi perché ha paura di essere impallinato da noi», è la malisiosa confidenza, di chi evidentemente sa che l’avvocato di Volturara Appula non ha esattamente il controllo assoluto di Gruppi parlamentari ormaiallo sbando. E mentre l’ex premier sta a guardare Luigi Di Maio per il momento tace. Nei giorni scorsi si era solo preoccupato di chiedere alla forze politiche di proteggere il presidente del Consiglio dai «giochi di Palazzo». Ma ora che i giochi sono ufficialmente partiti, tutti si chiedono come giocherà il ministro degli Esteri. Per i compagni di partito farà quello che ha sempre fatto - «siederà a più tavoli» - ma è difficile immaginare che il leader più draghiano del Movimento sia rassegnato all’idea di lasciare ad altri il pallino in mano. Di Maio non ha alcuna intenzione di lasciare la Farnesina anzitempo, né di fare uno sgambetto all’uomo grazie al quale ha irrobustito le sue relazioni internazionali.
La distanza tra i due leader è sempre più profonda. Come sempre più profonde sono le spaccature all’interno di un Movimento ormai senza bussola.