Anche a costo di sembrare quello che non è, cioè un misogino, come apparve in una puntata di Porta a Porta nel gennaio del 2000 strapazzando a tal punto Alba Parietti da indurre il regista a togliergli il collegamento, Giuliano Ferrara non ha voluto riconoscere a Giorgia Meloni la qualifica, il ruolo e quant’altro di donna dell’anno. Neppure - o proprio, chissà- dopo averne sentito o letto i resoconti della sua prima conferenza stampa di fine anno. Che io ho apprezzato per avere saputo la premier mettere in luce, senza neppure il bisogno di denunciarlo esplicitamente, il rapporto ormai di subordinazione del Pd rispetto ai grillini - o grillozzi, come Giuliano li chiama con sarcasmo - di Giuseppe Conte.

Pensate un po’, anche dopo che la Meloni ha confermato, rispondendo ad una delle 43 domande rivoltele in tre ore, l’accordo con il cosiddetto terzo polo per ripristinare praticamente la prescrizione nella disciplina che porta il nome dell’allora ministro piddino della Giustizia Andrea Orlando, soppressa dal pentastellato Alfonso Bonafede con una supposta introdotta in una legge di altro contenuto; anche dopo questo, lo stesso Orlando e il suo partito non hanno ritenuto di mostrarsi soddisfatti. Essi hanno, al contrario, dissentito per non compromettere ulteriormente la ripresa dell’alleanza con Conte dopo il congresso rifondativo, rigeneratore e non so cos’altro innescato al Nazareno dal segretario irrevocabilmente dimissionario Enrico Letta.

Che Ferrara - ahimè - ha dichiaratamente votato nelle elezioni anticipate del 25 settembre scorso scommettendo - presumo - su un risultato non dico positivo, ma non così negativo come quello rappresentato dai sette punti di distacco dal partito della Meloni, già raddoppiati sinora nei sondaggi successivi. La Meloni resta, come vedremo, nella visione dello scenario politico del fondatore del Foglio “la più recente testimonianza” - ha scritto- di un fenomeno ancora più dominante dell’Italia nata dalle ceneri giudiziarie e politiche della cosiddetta Prima Repubblica. “La memoria condivisa non darà mai al Cav. quel che è suo” - dice il titolo che Ferrara credo si sia confezionato da sé per il suo intervento di giornata, ieri, su tutta la prima pagina fogliante- ma l’uomo dell’anno è lui”.

“La verità è che il Cav. - ha spiegato e elencato Giuliano, che non a caso ne fu il primo ministro dei rapporti col Parlamento nel 1994- ci ha dato in successione: l’alternanza, di cui il governo Meloni è la più recente testimonianza, per di più femminile, comunque lo o la si giudichi e per chiunque altro si sia votato; la trasformazione del vecchio e inservibile Msi in altro, un sofisticato riciclaggio ecologico; la costituzionalizzazione della Lega, che a parte la parentesi autolesionistica del salvinismo 2018, è riuscita alla grande nelle regioni e a livello nazionale; il maggioritario, la cui quota incarnata dal governo del 1994, e sopravvissuta in tutte le leggi elettorali successive e in tutte le esperienze conosciute, ha portato il paese che amiamo a essere come adesso, una nazione europea intrisa di normalità istituzionale”.

Una normalità - mi permetto di osservare- pretestuosamente contestata dalle ricorrenti denunce della presunta anomalia costituita da un presidente del Senato - seconda carica dello Stato- ancora orgoglioso di avere militato nel Movimento Sociale Italiano, e perciò invitato un giorno sì e l’altro pure a dimettersi.

Un presidente difeso l’altro ieri da Ferrara in una felice “stecca” da me segnalata ai lettori del Dubbio, unitamente a quella di Piero Sansonetti sul Riformista, ma in qualche modo corretta ieri in uno degli abituali e anonimi editoriali del Foglio con l’invito a Ignazio La Russa a “contenersi” perché “il problema - spiega il titolo- non è il Msi, ma le continue esternazioni politiche poco super partes” del presidente del Senato.

Ma torniamo a Berlusconi “uomo dell’anno” a sorpresa per segnalare il merito riconosciutogli da Giuliano di avere anche “trasformato un’azienda in partito, spendendo parecchio per trasformare le zucche in carrozze, quando si è visto quanto sia facile, tra vini e consulenze, trasformare una carriera repubblicana in un’aziendina personale, percorso di guadagno forse meno virtuoso”. Feroce, direi, questa allusione a Massimo D’Alema: meno feroce dell’invito pur rivolto alla fine a Berlusconi a “darsi una riguardata” nei rapporti con Putin grazie anche al “vantaggio accumulato” su di lui in credibilità. Ah, questo Cavaliere, per esteso, e questi suoi estimatori dalle imprevedibili energie e fantasie, capaci di dirgli - anche questo ha scritto Ferrara - che “può continuare a sbagliare e stravagare” senza perdere il titolo dell’uomo dell’anno che sta finendo, e forse pure di quello che sta arrivando.