Sono naturalmente anch’io in attesa più o meno ansiosa di sapere se “l’oro di Mosca” in qualche modo intercettato dai servizi segreti americani, e destinato dal 2014 a partiti di una ventina di paesi, non sia giunto davvero pure in Italia, e a vantaggio di chi in particolare, o non risulti «fino ad ora». Come è stato precisato negli stessi Stati Uniti da Adolfo Urso, presente oltre Oceano non ho ben capito, francamente, se più in veste di presidente del Copasir - il comitato bicamerale di sicurezza della nostra Repubblica, vigilante sui servizi segreti - o di esponente del partito di Giorgia Meloni. Della quale di recente Il Foglio ha rilevato il non ancora chiaro o completo gradimento - diciamo così - dell’inquilino democratico della Casa Bianca come candidata a Palazzo Chigi.

Per cui le pur ripetute professioni di atlantismo, di solidarietà e di appoggio all’Ucraina e di condivisione delle sanzioni contro la Russia che l’ha aggredita non basterebbero alla leader della destra italiana per rasserenare le “cancellerie” europee. Dove peraltro non hanno gradito il recente grido della Meloni in piazza, a Milano, contro «la pacchia» della prevalenza degli interessi tedeschi e francesi su quelli italiani a Bruxelles e dintorni. In attesa - ripeto - di sapere e capire, e non solo di intuire o sperare, che davvero “l’oro di Mosca” non sia arrivato anche in Italia, mi permetto di consolarmi della bizzarra campagna elettorale con la nuova, ultima lezione data da Mario Draghi ai partiti. Ma chissà poi se davvero ultima, mancando ancora nove giorni alle elezioni e ancora di più all’insediamento delle nuove Camere, prima del quale le vecchie potrebbero in teoria riservare ancora al presidente del Consiglio altre occasioni d’intervento critico come quello appena avvenuto contro la deroga tentata dal Senato al tetto degli stipendi pubblici. Che è fissato nei 240 mila euro l’anno assegnati al presidente della Repubblica.

La deroga, passata come una supposta nella conversione in legge di un decreto su aiuti a famiglie e imprese danneggiate dai rincari energetici, avrebbe potuto essere vanificata da Draghi evitando semplicemente di renderla esecutiva con un decreto contemplato dallo stesso provvedimento. Ma il presidente del Consiglio, volendo probabilmente precludere cattive tentazioni al successore ma ancor più - sospetto - volendo dare una lezione, appunto, a partiti troppo disinvolti, ha preferito fare ristabilire alla Camera l’integrità del tetto stipendiale. E obbligare perciò il Senato nell’ultima settimana di campagna elettorale ad un imprevisto supplemento di lavoro per ratificare l’ulteriore modifica apportata a Montecitorio.

L’irritazione di Draghi per quanto accaduto a Palazzo Madama, lamentato anche dal capo dello Stato definendolo «inopportuno», è ancora più apprezzabile per il fatto che ha coinvolto, volente o nolente, il suo pur amico ministro dell’Economia Daniele Franco. Che aveva trovato 25 milioni di euro, pari ad una cinquantina di miliardi delle vecchie lire, tra le pieghe del bilancio per finanziare gli aumenti di retribuzione destinati a generali ed alti burocrati. Delle cui aspettative si era fatto portatore in Senato - secondo un racconto affidato dal parlamentare forzista Marco Perosino alla Stampa e pubblicato nella lontana pagina 15, senza una citazione sia pur minima in prima - il presidente della Commissione Finanze Luciano D’Alfonso, del Pd. «Loro ormai - ha detto Perosino parlando anche dei colleghi di partito di D’Alfonso - rappresentano la burocrazia italiana. Siamo rimasti noi a parlare per le classi povere».

In deroga tuttavia a questa rappresentanza praticamente esclusiva o prevalente delle “classi povere” assunta dai forzisti, Perosino aveva firmato l’emendamento originario per derogare al tetto ben alto dei 240 mila euro di Mattarella, nella convinzione confessata che riguardasse quattro o cinque posizioni apicali, come si suol dire, della pubblica amministrazione. E perché mai questa generosità? Per amicizia - ha spiegato Perosino - non verso quelle quattro o cinque persone ma per il presidente della Commissione Finanze, che gli aveva chiesto il piacere di firmare la proposta.

Qualcosa tuttavia lungo il percorso parlamentare della conversione del decreto non andò poi per il verso giusto perché l’emendamento risultò ritirato. Ma Perosino per primo se l’è infine ritrovato, non più a firma sua ma, più genericamente, delle “commissioni riunite”, in un elenco di modifiche elaborato in extremis, secondo lui, neppure dal povero ministro Franco strapazzato temo - da Draghi, ma da “funzionari” convinti che la furbata passasse inosservata nel bailamme della fine di legislatura. Invece se ne sono accorti, fra gli altri, Mattarella e Draghi, sorpresi - a dir poco - anche dalla sostanziale unanimità dell’approvazione, fra voti favorevoli e astensioni. Per quanto curiosamente contenuta dall’informazione, questa brutta vicenda temo che non sfuggirà all’area del cosiddetto astensionismo, già saldamente in testa alla graduatoria dei partiti.