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DOMENICO MIMMO LUCANO POLITICO
Mimmo Lucano non potrà correre alle elezioni regionali in Calabria. Una notizia scontata, dopo i pronunciamenti dei Tar di Reggio Calabria e Catanzaro, fondati sulla condanna definitiva a 18 mesi per falso ideologico nel maxi processo Xenia sull’accoglienza, di fatto rivelatosi un flop. Ma il Consiglio di Stato, pur confermando l’esclusione, introduce una novità che va oltre il caso singolo: la falsità ideologica, a differenza di altri reati previsti dalla legge Severino, non comporta un’automatica incandidabilità.
L’ufficio elettorale circoscrizionale deve motivare la decisione, ma con un “onere attenuato”, e dunque con un margine di scelta. Questo significa che Lucano non è stato escluso in virtù di un automatismo di legge, valido per tutti, ma per una valutazione discrezionale dell’amministrazione. Una discrezionalità che, secondo la difesa, mette a rischio l’uguaglianza tra i cittadini e incrina il principio di certezza del diritto.
Il rovescio della medaglia è che questa stessa pronuncia potrebbe favorire Lucano sul fronte della decadenza da sindaco di Riace, disposta in primo grado dal Tribunale di Locri ma oggi sospesa in appello. Il sindaco, europarlamentare di Avs, dunque, continua a denunciare le incoerenze della Severino, che non inserisce il falso ideologico tra i reati ostativi ma al tempo stesso lascia spazio a interpretazioni punitive.
«Il Consiglio di Stato conferma quello che sosteniamo da tempo: l’incandidabilità non è automatica, ma frutto di discrezionalità amministrativa», spiega al Dubbio l’avvocato Andrea Daqua, che difende Lucano insieme a Giuliano Saitta. «Non è la legge a decidere, ma un ufficio elettorale: due condannati per lo stesso reato possono avere destini opposti. È una contraddizione che mina il principio di legalità».
La questione dirimente era quella di decidere se il reato di falsità ideologica contenesse in sé l’abuso di potere o la violazione dei doveri (come sostenuto da alcuni) oppure se (come sostenuto dalla difesa) l’accertamento della condotta spetti solo ed esclusivamente al giudice penale che, nel caso di Lucano l’ha esclusa.
A dimostrarlo sono tre «incontestabili elementi»: non viene contestato nel capo d’imputazione, non se ne fa cenno nelle motivazioni e la corte di appello non applica l’interdizione, che anzi viene revocata. Il fatto che il Consiglio di Stato affermi che l’incandidabilità non sia automatica è prezioso per Lucano: «Il Consiglio di Stato precisa che la normativa impone soltanto un “onere motivazionale attenuato” a carico dell’ufficio elettorale - continua il legale -, organo il quale in presenza di certi reati, ai fini della partecipazione elettorale non dovrà, necessariamente, svolgere una particolare indagine ricostruttiva dei profili connessi all’abuso di poteri o alla violazione di pubblici doveri».
Ed è proprio questa conclusione «che merita ulteriore approfondimento giurisdizionale e legislativo in quanto, alla luce della importante ed autorevole decisione del Consiglio di Stato, non è la condanna riportata da Lucano a renderlo incandidabile, non è la legge Severino a sanzionarlo, ma il potere discrezionale dell’Ufficio elettorale che, a fronte di identico reato (479 c.p.) avrebbe il potere di decidere chi è candidabile e chi no; chi, condannato per lo stesso reato, ha commesso abuso di potere e chi no». Una ricostruzione ermeneutica «in contrasto con il fondamentale principio costituzionale di certezza del diritto». Ed è proprio qui che la vicenda supera il destino individuale di Lucano. La legge Severino nasceva per tutelare l’etica pubblica, ma si rivela sempre più come un terreno scivoloso di interpretazioni e disparità. E la domanda che lascia aperta questa sentenza non riguarda solo Riace: può la candidabilità di un cittadino dipendere da una discrezionalità amministrativa?