«Né rinnegare né restaurare». Il vecchio motto di Giorgio Almirante torna a farsi sentire nella strategia di Giorgia Meloni, che davanti alla sfida referendaria sulla giustizia sceglie di camminare in equilibrio: riconoscere le radici del centrodestra senza restare prigioniera del mito berlusconiano.

Il messaggio che filtra da Palazzo Chigi è netto: nessun comitato di partito, nessuna campagna costruita sull’icona di Silvio Berlusconi. Il referendum deve parlare a tutto il Paese, non solo ai nostalgici del Cavaliere. L’obiettivo è evitare di far scivolare la battaglia sulla separazione delle carriere in un revival degli anni Novanta e Duemila, quando ogni tentativo di riforma si trasformava in una guerra tra “berlusconiani” e “antiberlusconiani”.

Meloni vorrebbe tenere la barra dritta sul merito, presentare la riforma come un passo di modernizzazione istituzionale e non come una resa dei conti. Ma va detto che nel frattempo una parte di Forza Italia sembra spingere in direzione opposta, rivendicando apertamente l’eredità del fondatore.

In primis Antonio Tajani, che di certo non lo nasconde: «La riforma della giustizia», ha affermato ieri, «era un progetto di Silvio Berlusconi, un cardine del nostro programma, e lo abbiamo portato avanti per coerenza con gli impegni presi». E ancora: «La famiglia Berlusconi ha vissuto sulla propria pelle che cosa significa una giustizia ingiusta, ed è naturale che senta questa battaglia come propria». Parole che pesano, e che segnano la volontà del partito di intestarsi il referendum come la realizzazione postuma di un disegno originario del Cavaliere. È un modo per tenere vivo un legame identitario e per parlare al proprio elettorato storico, che vede nella riforma Nordio la consacrazione di una battaglia simbolica contro le “toghe rosse”.

Una strategia che però lascia tiepida la premier. Meloni sa che il nome di Berlusconi divide ancora profondamente l’opinione pubblica, e che ogni riferimento diretto al fondatore rischia di risvegliare vecchie contrapposizioni. Per questo nelle prossime settimane di adopererà per sottrarre la riforma a ogni dimensione personale o vendicativa. Il suo messaggio vorrebbe essere eminentemente politico: la giustizia va riformata nell’interesse dei cittadini, non per riscrivere i conti della storia. Niente toni trionfalistici, nessun pantheon, nessuna nostalgia. Solo pragmatismo e disciplina comunicativa. È la stessa logica che, all’inizio della legislatura, la portò a scontrarsi con il Cavaliere sulla casella di via Arenula. Allora Meloni impedì l’arrivo di una fedelissima di Forza Italia alla Giustizia, rivendicando la libertà di scelta del governo e una linea autonoma. Oggi quello spirito riaffiora: nessuna “berlusconizzazione” del referendum, nessuna delega agli alleati nella gestione della campagna.

A coordinare la macchina del sì dovranno essere tecnici, giuristi, costituzionalisti, non gli apparati di partito. Una strategia che punta a disinnescare le accuse di politicizzazione e a mantenere il controllo sul messaggio. La premier, insomma, vuole evitare che la battaglia referendaria si trasformi in un tribunale politico. E punta a spostare l’asse del dibattito dal passato al futuro, facendo della riforma Nordio il simbolo di una giustizia più efficiente, non di una resa dei conti con la magistratura. Anche per questo, nei vertici interni, Meloni continua a frenare le spinte più emotive e a diffidare di chi immagina il voto come una rivincita contro la magistratura o come un regolamento di conti con la storia giudiziaria del centrodestra. Resta però un nodo politico: Forza Italia non rinuncerà facilmente a evocare Berlusconi.

Tra l’orgoglio identitario e la riconoscenza verso la famiglia, il partito di Tajani sembra deciso a tenere viva la memoria del suo fondatore come bandiera di battaglia. I cartelloni esposti nel flash mob vicino al Senato dagli eletti e dai militanti azzurri dopo l’ultima lettura parlamentare sono tutto un programma, quasi un manifesto politico. E se per molti quella scenografia è un omaggio, per la premier è un rischio: l’immagine del Cavaliere può trasformarsi in un detonatore emotivo capace di polarizzare l’opinione pubblica e di ridurre la portata istituzionale della riforma. Le bagarre in aula alimentate dai grillini con tanto di evocazione del Maestro Venerabile Licio Gelli e la P2 la dicono lunga, e in una battaglia stile Seconda Repubblica anche Elly Schlein, che pure ha nelle sue truppe più di un eletto che in passato si è pronunciato a favore della separazione delle carriere, è pronta a gettarsi nella lotta sotto la cintura.

Meloni, invece, punta - almeno su questo terreno - a un messaggio sobrio e istituzionale, per parlare anche a chi non vota centrodestra. Ma anche la premier è soggetta a qualche scivolata, come nel caso del comunicato veemente contro la magistratura contabile per il no al Ponte, poi rientrato. La posta in gioco non è la riabilitazione di un leader, ma la credibilità del governo e la tenuta della coalizione. Se la campagna si chiuderà in un clima di scontro, il prezzo politico potrebbe essere alto per tutti. E così, curiosamente, il motto di un’icona della destra serve oggi a scongiurare il ritorno di un’altra icona, quella della lotta alle toghe rosse. «Né rinnegare, né restaurare» stavolta significa difendere la riforma senza cedere alla tentazione del culto. Perché la sfida non è sul passato, ma su chi saprà davvero portare la giustizia italiana fuori dalle sabbie mobili.