Nulla da fare: il Tar di Reggio Calabria ha confermato l’incandidabilità di Domenico Lucano, sindaco di Riace e candidato di Avs a supporto di Pasquale Tridico per le regionali in Calabria del 5 e 6 ottobre.

Secondo le motivazioni, stando alla lettera d) dell’articolo 7 della Legge Severino, basta una condanna definitiva per qualsiasi reato commesso “con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio”, per una pena superiore a sei mesi, per stabilire l’incandidabilità.

Si tratta di un’ipotesi «inabilitante, aperta e residuale», il cui perimetro applicativo risulta delineato dalla soglia della pena (superiore a sei mesi) e dall’individuazione di condotte «non previste ex ante ma ritenute, sulla scorta di un criterio valoriale, aventi un grado di offensività incompatibile con la candidatura a cariche elettive, giacché implicanti “abuso dei poteri” ovvero “violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio”, come tali potenzialmente idonee ad interferire con i compiti connessi alla carica ambita».

In nessuna parte della sentenza penale viene stabilito un abuso di potere, pure escluso con la cancellazione delle pene accessorie, come sottolineato dagli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Saitta. Per i giudici, però, si tratterebbe di una censura «del tutto fuori fuoco». Stando al ricorso dei due legali, «l’Ufficio centrale circoscrizionale presso il Tribunale di Reggio Calabria si sarebbe limitato a presumere l’esistenza della suddetta connotazione della condotta (abuso dei poteri ovvero violazione dei doveri inerenti la pubblica funzione), desumendola dal mero titolo di reato ascritto (art. 479 c.p., contestato in relazione all’art. 476 comma 2 c.p.) e, dunque, ritenendola ontologicamente connaturata alla fattispecie penale della falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, senza tener conto del comportamento concretamente posto in essere dall’odierno ricorrente/imputato/condannato e, dunque, degli accertamenti penali di cui alla sentenza adottata nei confronti di quest’ultimo ed anzi contra le risultanze di tali accertamenti penali che, viceversa, sia pure implicitamente, escluderebbero qualsivoglia abuso di potere/violazione dei doveri inerenti la pubblica funzione/il pubblico servizio (stante la mancata contestazione dell’aggravante di cui all’art. 61 c. 9 c.p. e la mancata comminazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici ex art. 31 c.p.)».

Ma «astraendosi, per un momento, dal comportamento concretamente posto in essere dall’odierno ricorrente, in qualità di sindaco del Comune di Riace, nella vicenda attinente la gestione del flusso dei migranti – si legge ancora – la condotta tipizzata, in via generale ed astratta, dall’art. 479 (a carico del “pubblico ufficiale, che, ricevendo o formando un atto nell'esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità”) comporta ex se quell’abuso di poteri/violazione dei doveri inerenti la pubblica funzione/pubblico servizio, ostative alla candidabilità ex lettera d) dell’art. 7 D.lgs. n. 235/2012».

I giudici del Tar si rifanno al capo di imputazione, che contestava ben 56 determine relative ai rendiconti di spesa dei tre progetti. «Al fine di affermare la responsabilità di Lucano – continua la sentenza – il Tribunale, con valutazione confermata nei successivi gradi di giudizio, ne ha innanzitutto premesso la qualità di pubblico ufficiale (quale Sindaco del Comune di Riace), oltre che di incaricato di pubblico servizio, quale responsabile dei progetti di accoglienza».

La sentenza di appello ha però stravolto la portata di quel capo d’imputazione, ritenendo legittime 55 determine e cancellando l’interdizione dai pubblici uffici. Il Tar evidenzia però quanto scritto dai giudici d’appello, secondo cui «deve escludersi che le finalità solidaristiche che hanno sorretto il percorso di Lucano (dunque certificate dalla sentenza, ndr) siano di particolare valore morale e sociale», pur avendo le stesse «animato, in linea generale, il suo approccio al tema dell'accoglienza».

Da nessuna parte viene però indicato l’abuso di potere nel compimento di un reato finalizzato a recuperare somme già spese e mai restituite (nemmeno dopo la determina, come più volte accaduto in passato). Poco importa, perché per il Tar ciò basta a certificare la violazione dei doveri inerenti alla funzione di pubblico. Ed è irrilevante, scrivono i giudici, che non sia stata comminata la pena accessoria dell’interdizione, «trattandosi di istituti che, pur muovendo dagli stessi presupposti, operano su piani giuridici autonomi e paralleli ed hanno effetti non pienamente coincidenti».

I giudici di Catanzaro - che si sono pronunciati sull’altra sentenza di incandidabilità -, poche ore dopo, hanno dichiarato improcedibile il ricorso, proprio in virtù della pronuncia della Sezione di Reggio Calabria. E in base al principio della “ragione più liquida”, la pendenza di due atti identici ha reso superflua una nuova decisione. Nessuna condanna alle spese, data la mancata costituzione dell’amministrazione.

Dal canto suo, Lucano ha annunciato di volersi recare in Palestina. «Devo andare lì perché mi manca il respiro – ha dichiarato – quel senso di vedere, di toccare con le proprie mani, di essere utile senza rimanere in disparte». Un impegno che, dice, nasce dal bisogno di coerenza: «La politica alle parole deve far seguire i fatti. Le parole non contano».