Prima è come se fossero stati materiali inerti messi l’uno di fianco all’altro; ognuno potenzialmente esplosivo, è vero, però giustapposti, posizionati senza che potessero collidere. Ora che la deflagrazione è avvenuta grazie alle affermazioni, poi smentite, del consigliere del Csm di Magistratura Democratica, Piergiorgio Morosini - quel «bisogna fermare Renzi» che ha funzionato da miccia - il quadro, seppur devastato, è più chiaro. Gli elementi sono noti: bisogna solo metterli in fila. Dall’intervista di Piercamillo Davigo sui politici che rubano ma non si vergonano più, alla staffilata renziana contro la barbarie giustizialista; dall’inchiesta su Tampa rossa con annesse dimissioni del ministro Federica Guidi, all’incriminazione per presunti legami camorristici del responsabile campano del Pd, Stefano Graziano. Dall’arresto del sindaco di Lodi Simone Uggetti, assai vicino a Lorenzo Guerini (a sua volta esponente dell’inner circle di palazzo Chigi), alle accuse ai magistrati che quella inchiesta conducono avanzate da Giuseppe Fanfani, membro del Csm in quota Pd. Per finire a Morosini, appunto, le cui affermazioni hanno provocato in sequenza l’intervento del Guardasigilli Orlando, del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e addirittura di Giovanni Canzio, Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione, praticamente il magistrato più importante d’Italia. Tutti decisi a chiedere chiarimenti o pronti a denunciare «l’incrinatura» della fiducia nei giudici da parte dei cittadini. Volendo, in mezzo ci starebbe anche la freschissima condanna di Renato Soru, europarlamentare democrat. Nessun nesso diretto e neppure indiretto con le altre inchieste in corso. Tuttavia il dato temporale è tremendo: la sera il presidente del Consiglio annuncia la riduzione delle tasse sul reddito a partire dal 2017 e neanche dodici ore dopo il tribunale di Cagliari condanna a tre anni di reclusione per evasione fiscale il responsabile del Pd in Sardegna nonché patron di Tiscali. Che si dimette dall’incarico.Uno tsunami vero e proprio che costringe anche i più riottosi a spalancare gli occhi sulla reviviscenza di un virus tutto italico che nessuno riesce a debellare: lo scontro tra politica e magistratura. Conflitto che dopo il ventennio berlusconiano stavolta si gioca nell’altra metà campo, visto che mette nel mirino il partito più importante del centrosinistra, il Pd, ed in particolare il suo leader Matteo Renzi.Difficile allontanare la sensazione che l’arrivo di Davigo a capo dell’Anm, il sindacato delle toghe, e le sue secche affermazioni, oltre che far scattare l’allarme rosso nei Palazzi della politica abbiano provocato irritazione e distinguo tra gli stessi magistrati. Come pure è arduo non registrare qual è il terreno sul quale si misureranno le schiere dei due eserciti: il referendum costituzionale. E’ lì, in quel passaggio, che chi vuole può far male all’altro. Perché è lì che la posta in palio è massima: il futuro politico del capo del governo e, anche e soprattutto, i rapporti di forza tra poteri dello Stato. Quel «bisogna fermare Renzi», parteggiando e facendo campagna elettorale per il No alla consultazione popolare di ottobre, ancorché smentito e rismentito, è stato evidentemente preso sul serio da tanti attori della vicenda per una semplicissima ragione: illumina di luce sinistra la guerra in corso. Se la magistratura militante e politicamente più schierata scende in campo contro la politica, e se il premier ed il suo partito quel conflitto accettano e combattono, allora il falò delegittimatorio arriva al cuore delle istituzioni, riducendo in cenere non solo il rispetto ed i confini dei reciproci ruoli ma anche quel residuo di speranza e fiducia nella leale collaborazione tra poteri dello Stato che tanti cittadini nonostante tutto si ostinano a coltivare.Come intenda comportarsi e quali armi mettere in campo, il presidente del Consiglio l’ha enunciato più volte. La freccia più acuminata della faretra renziana non si chiama più rottamazione bensì ricambio, che è sinonimo di rinnovamento. La politica, è il suo mantra, sia nelle facce che nelle scelte, è stata capace di cambiare, di rinnovarsi, di produrre riforme impensabili fino a pochi mesi fa. Sotto il profilo generazionale ma anche dal punto di vista delle regole del gioco. Può piacere o no; è giusto che chi non gradisce o non si riconosce in quel rinnovamento e nei provvedimenti del governo e del Parlamento sia libero di criticare, anche aspramente.La guerra, anche se asimmetrica, necessita di due parti in conflitto. Dunque la politica ha le sue responsabilità. Grandi. Ma nessuno può negare la realtà: proprio perché ha avuto la capacità di cambiare marcia, ha ritrovato autorevolezza e dignità. Ferma restando la legittimità e l’assoluta autonomia delle scelte da parte delle toghe, la riproposizione dell’immagine di Davigo o la recrudescenza di un braccio di ferro voluto o meno, per i risvolti e le conseguenze non solo mediatiche che comporta, può consentire di dire lo stesso?