«Siamo uno Stato di diritto». È il mantra che in questi giorni ogni esponente del governo ungherese sta ripetendo a chi gli chiede conto del trattamento che Ilaria Salis sta subendo in carcere e nell’aula di tribunale del paese magiaro. Una frase non casuale, che suona quasi beffarda per chi segue le vicende di Bruxelles. Sostenere contro ogni evidenza di essere uno Stato di diritto, che la politica non ha alcun potere sui magistrati in quanto ordine indipendente, infatti, rimanda direttamente a un contenzioso in corso da mesi tra Budapest e le istituzioni europee, che ruota attorno a 30 miliardi di fondi Ue bloccati dalla Commissione ( poi parzialmente sbloccati) proprio perché l’esecutivo guidato da Orbán non soddisfa gli standard minimi di rispetto dei diritti civili imposto per l’erogazione dei finanziamenti comunitari. E la formula usata sia dalla Commissione che dall’Europarlamento si è rifatta sempre alla mancanza dello Stato di diritto, tanto da indurre alti funzionari e lo stesso Orbán a premetterla a ogni loro dichiarazione.

Uno sconto arrivato recentemente al massimo punto di tensione e che a detta degli osservatori più avveduti rappresenta la vera ragione dell’irrigidimento di Budapest su una questione che si sarebbe potuta risolvere prima e con modalità lontane dai riflettori. La linea del centrodestra è che il modo con cui viene esposta alle telecamere Ilaria Salis è certamente poco commendevole, ma al contempo la politicizzazione della vicenda che a loro avviso sta operando il centrosinistra allontana una soluzione accettabile, che in questa fase potrebbero essere gli arresti domiciliari. Dall’altra parte si fa appello alla premier Giorgia Meloni, accusata di non far sentire adeguatamente la propria voce su questa vicenda a colui che gli è sempre stato vicino politicamente e che, con ogni probabilità, dopo le prossime elezioni europee andrà a ingrossare le fila del “suo” gruppo Ecr a Strasburgo.

Cosa può fare, effettivamente, la nostra presidente del Consiglio? Guardando a cosa è accaduto qualche settimana fa e alle frasi sibilline che arrivano dai governanti magiari, si può concludere con buona approssimazione che Orbán desideri che Palazzo Chigi faccia nuovamente pressione su Ursula von der Leyen affinché sblocchi altre risorse dei circa 30 miliardi che Budapest sta attendendo, tra fondi di coesione e risorse legate a Next Generation Eu.

Di questi soldi, una tranche pari a 10 miliardi era stata sbloccata lo scorso dicembre, poco prima del voto del Consiglio Ue sugli aiuti all’Ucraina, sui quali il premier ungherese per la prima

volta ha fatto cadere il veto. Un esito che molti hanno attribuito all’intermediazione di Giorgia Meloni, molto efficace – a quanto pare – a prospettare ad Orbán uno schema in cui a fronte di alcuni “sì” importanti a Bruxelles sui dossier più sensibili, quest’ultimo otterrebbe per il suo paese i soldi congelati ( 30 miliardi per il bilancio ungherese sono una somma enorme). Ma ciò che deve aver irrigidito il leader ungherese è l’iniziativa clamorosa, assunta dalla maggioranza dell’Europarlamento, di contestare alla von der Leyen anche lo sblocco parziale dei fondi, visto che secondo la commissione giuridica del Parlamento europeo all’erogazione dei dieci miliardi non hanno corrisposto le riforme richieste dall’Unione europea. Addirittura, i parlamentari del Ppe, partito della presidente della Commissione, hanno deciso di votare a favore della mozione che impegna l’Europarlamento a far causa alla Commissione Ue presso la Corte di Giustizia europea per “violazione dei suoi obblighi di evitare che si abusi dei soldi dei contribuenti”.

Insomma, la situazione ha preso una brutta piega e non è paragonabile a quella di Chico Forti, italiano condannato negli Usa all’ergastolo e recentemente riportato in Italia a scontare la pena grazie ad un’operazione favorita dagli ottimi rapporti diplomatici tra l’amministrazione Biden e Palazzo Chigi. La soluzione, nel caso di Ilaria Salis deve passare obbligatoriamente per una triangolazione con Bruxelles, che risulta ancor più complicata se gli stessi organi comunitari si dividono tra morbidi e intransigenti sulla linea da adottare nei confronti di Budapest. Senza contare che la vicenda Salis, ineluttabilmente, è già entrata nel tritacarne della campagna elettorale, con Matteo Salvini deciso a incalzare da destra la premier anche su questo fronte, avallando sostanzialmente la condotta ungherese e puntando l’indice sulla ragazza, Tajani che invoca moderazione e implicitamente marca le distanze da chi è stato cacciato dal Ppe e, infine, col Pd che sta valutando la candidatura della Salis.