È chiaro che se agli italiani dici che serve un’altra legge elettorale, mettono mano alla pistola. Giustamente. E’ altrettanto chiaro che se l’ultima approvata: il Rosatellum, la quarta dal 1994, non funziona e produce solo ingovernabilità, bisognerà sostituirla. Inevitabilmente.

E’ su questo scosceso crinale italiano che si muoverà il prossimo Parlamento. Allo stallo del dopo voto - pur senza ammetterlo per evidenti motivi di campagna elettorale - si stanno preparando un po’ tutti. Alla necessità di rimettere mano al meccanismo di voto, pure: anche in questo caso, nell’impossibilità di dirlo apertamente. L’incubo del dopo 4 marzo: una nuova legge elettorale

Tuttavia il tema fa lo stesso capolino qua e là, carsicamente, proprio perché riveste una doppia caratteristica: è ultra impopolare e al tempo stesso ultra necessario.

In principio è stato Walter Veltroni. Seduto poche settimane fa sulla poltroncina di Floris, spiegò en passant che il prossimo Parlamento avrebbe dovuto fare un’altra riforma elettorale. Poi è stata la volta di Massimo D’Alema che in ( casuale?) sintonia con il suo ex dioscuro Pci- Pds- Ds ribadì il concetto: governo del Presidente ok, ma serve anche un nuovo sistema di voto. Ora sul Corriere l’uno- due della coppia Mieli- Della Loggia i quali, pur partendo da scenari diversi, fanno riferimento alla opportunità di una riforma del voto. Il tutto per evitare che chiamare a ripetizione gli italiani alle urne si riveli infruttuoso e non faccia altro che produrre effetti patologici: incentivare l’astensionismo e logorare lo strumento principe di democratica espressione della volontà popolare.

Solo che è facile ( benché come visto neppure tanto) a dire; difficilissimo se non impossibile a fare. Perchè dal passaggio dal proporzionale al maggioritario, appunto all’inizio degli anni ‘ 90, è cambiato il mondo e, di conseguenza, anche la geografia politica: italiana ma verità dell’intero Occidente. Sono arrivate sul proscenio forze anti- sistema di grande rilevanza. Per limitarci al nostro Paese, l’assetto bipolaristico che contraddistingueva lo stare “o di qua o di là” e garantiva che uno dei due schieramenti in campo, poco importa quanto coeso fosse, avrebbe comunque ottenuto la maggioranza e quindi la possibilità di esprimere un governo, è stato sostituito da un tripolarismo che manda all’aria ogni possibilità di vittoria nelle urne. Salvo che una ottenga il 51 per cento: traguardo che neppure la Dc dei “forchettoni” del 1948 riuscì a tagliare. E allora?

Allora è precisamente questo il motivo per il quale la questione viene tenuta sottobanco. Senza che l’obbligata sordina ne attutisca l’esplosività.

Non basta. E’ palese, infatti, che per avere la garanzia della governabilità occorre in qualche misura distorcere la rappresentanza: introducendo un premio di maggioranza oppure alzando le soglie di sbarramento. Nelle democrazie di tipo occidentale, allo stato sono solo due i sistemi che assicurano un vincitore e un governo “la sera stessa delle elezioni”: il semi presidenzialismo a doppio turno alla francese oppure il presidenzialismo a turno unico all’americana. Il che, tradotto alle nostre latitudini, significa una cosa precisa: che l’ingegneria elettorale non basta, serve anche quella costituzionale. Cioè che non è sufficiente modificare, seppur in profondità fino a rovesciarlo come un guanto, il meccanismo attuale che è per due terzi proporzionale e per il resto maggioritario. Non basta neppure ripristinare il Mattarellum delle coalizioni che furono: Polo della Libertà e Ulivo. Per il semplice motivo che adesso i soggetti sono tre: chi è che spiega a uno di loro che, per il bene dell’Italia, deve sparire? Vero è che in presenza di un ripristinato bipolarismo le attuali formazioni politiche sarebbero costrette a squagliarsi come dentro un altiforno e ripresentarsi profondamente rimodellate. Per esempio da un parte il PdNI, il Partito della Nazione Istituzionale e dall’altra il MPAS, Movimento Populista Anti Sistema. Tuttavia, ironie a parte, il riferimento ai modelli citati spiega che la strada obbligata è il presidenzialismo, più o meno mitigato e più o meno cancellieralizzato. Cioè un’articolazione politica che affidi maggiori e specifici poteri all’esecutivo e riconosca una leadership investita direttamente dagli elettori. E’ possibile tutto questo dal 5 marzo in poi? Il 40 per cento che ha votato a favore del referendum renziano non aspetta altro che prendere in mano i forconi e urlare all’altro 60 per cento: avevamo ragione noi, ben vi sta. Peccato che le ritorsioni trascinate fino alla vendetta vadano bene e facciano esplodere lo share nelle finction tv: nella realtà producono solo veleni aggiuntivi, e l’unica esplosione possibile è quella del sistema democratico. Per evitare il collasso definitivo è obbligatoria una nuova legge elettorale e, magari, il presidenzialismo. Solo che il collasso forse è in atto e quegli obiettivi sono fantascienza allo stato puro.