Liberale, moderato, europeista, atlantista, verticistico. Dopo il giuramento dei sottosegretari Luigi Di Maio ridisegna dalle fondamenta il Movimento 5 Stelle. Non con una tesi congressuale da sottoporre agli iscritti, ma con un’intervista a Repubblica.

A che titolo? Difficile dirlo, visto che il giovane e abile leader grillino ha formalmente sciolto il nodo della cravatta, e del potere pentastellato, oltre un anno fa. Ma i titoli, nel Movimento 5 Stelle non contano più di tanto se ti chiami Di Maio. Perché il ragazzo di Pomigliano D’Arco non ha mai smesso di disporre del partito, lasciando a Vito Crimi solo l’ingrato compito del parafulmine, del capro espiatorio su cui addossare ogni responsabilità nei momenti di burrasca.

Così, le fasi evolutive del M5S corrispondono con le fasi della carriera politica del capo della Farnesina, l’unico esponente del suo partito a sedere ininterrottamente ( dal 2018) su una poltrona ministeriale passando per tre diversi governi. E la fase attuale richiede flessibilità e tanta immaginazione per rivoltare come un calzino un movimento ormai maturo, nato con la promessa di sputare sul compromesso ( «mai alleanze», dicevano) e diventato disponibile all’apparentamento con tutto l’arco parlamentare, Fratelli d’Italia escluso, ma per volere di Giorgia Meloni. Del resto, mentre i ragazzi - Alessandro Di Battista e gli altri “scalmanati” - occupavano i tetti di Montecitorio, Di Maio, all’interno del Palazzo continuava a presiedere l’Aula, da vice di Laura Boldrini. Era il 2013, la parabola della “scatoletta di tonno” era ancora la stella polare del grillismo, eppure quel ventisettenne campano ostentava già uno stile istituzionale, col vestito buono da indossare persino in spiaggia.

Abilissimo a inabissarsi quando la combina grossa, Di Maio resta sempre in piedi mentre gli altri inciampano, cadono o si fermano semplicemente un attimo a riposare. Non è un caso che sia proprio lui il primo capo politico - una bestemmia per il Movimento di allora - di un’organizzazione formalmente orizzontale e senza padroni. Perché quando la svolta si fa epocale, c’è sempre la faccia del ministro degli Esteri a trasformare la giravolta in «evoluzione» politica. Come quella che adesso impone ai suoi compagni di ventura, andati a letto grillini e risvegliatisi militanti di una forza «liberale, moderata, atlantista, saldamente all’interno dell’Ue» e che taglia i ponti con «l’assemblearismo estremo». Perché adesso le condizioni sono mutate e bisogna convincere Giuseppe Conte ad accettare la guida del Movimento, senza ricadere in quei «bizantinismi» della democrazia diretta. Un leader si incorona e basta, l’importante è che a incorniciare la testa del capo di turno sia sempre lui: Luigi Di Maio, l’unico a poterla togliere, la corona, al momento opportuno.

L’epoca di Rousseau è acqua passata. Il progetto dell’ex capo politico somiglia molto di più al sogno renziano del grande centro liberale che alla rivoluzione francese. Ma il diretto interessato non si scompone. Anzi, lascia intendere che il percorso era già chiaro nella sua testa dal 2015. Obiettivo: «Portare i 5 Stelle fuori dalle ambiguità». Peccato che da allora abbia nell’ordine: continuato in più occasioni a strizzare l’occhio agli euroscettici; chiesto l’impeachment per il Presidente della Repubblica; formato un governo col nemico giurato Salvini; tentato di chiudere un accordo coi gilet gialli ( con tanto di viaggio a Parigi insieme all’allora amico fraterno Di Battista); formato un nuovo governo col «partito di Bibbiano» ( il copyright è pentastellato) senza battere ciglio; abbracciato Draghi, Renzi e Berlusconi dopo la seconda caduta di Conte. Il tutto, sacrificando per strada amici e compagni di partito: da Dibba a Bonafede, passando per Morra.

Più che fuori dalle ambiguità, il Movimento targato Di Maio si nutre dell’equivoco, lo rivendica e lo trasforma in punto di forza. Uno stile camaleontico e scaltro che fa dire a Max Bugani, grillino bolognese della prima ora e storico collaboratore di Casaleggio: «Quindici anni di battaglie per diventare una costola di Berlusconi? Un trionfo. Gianroberto Casaleggio in piazza ci fece scandire il nome di Berlinguer, non quello di Luigi De Mita». Democristiano o no, Di Maio non si cura dei detrattori, sa che prima o poi li vedrà lontani dalla sua strada e procede felpato. Con quel passo smorzato, affinato alla scuola della Farnesina, che tanto influì anche su Gianfranco Fini, l’ex capo politico continua a muoversi nelle contraddizioni del sistema per infilarcisi e rimanere in sella. Sempre nuovo, sempre evoluto, sempre al potere. Liberale e moderato, se l’etichetta lo richiede, dispotico e radicale se serve. Con una sola costante: avrà sempre un esercito pronto a seguirlo. E ad adeguarsi.