«La scelta alle elezioni del 25 settembre è chiara: o noi o Meloni». A dirlo è Enrico Letta in unintervista a "Repubblica", con la quale spiega la sua strategia per la vittoria: «Trasformeremo le 400 feste dellUnità previste in tutta Italia da qui al voto in luoghi di dibattito ma anche di chiamata ai volontari. Ne metteremo insieme 100 mila e li guiderà Silvia Roggiani. Ad agosto saremo in tutte le città semideserte, nelle periferie, per parlare con chi in vacanza non è potuto andare. Porteremo la solidità delle relazioni umane e le nostre proposte. Come recitava lultima frase di Berlinguer, sarà una campagna casa per casa, strada per strada». Il "noi" di Letta si riferisce naturalmente al Pd, «che sta organizzando una lista aperta ed espansiva: "Democratici e progressisti". Sarà il cuore del nostro progetto Italia 27, la data di fine legislatura. Lobiettivo è arrivarci dopo aver governato e trasformato il Paese». Democratici e Progressisti non avrà un nuovo simbolo: «Il simbolo sarà il nostro, si aggiungerà la scritta. Puntiamo ad arrivare primi». Si tratta di una lista «nel solco condiviso dalle forze che hanno dato la fiducia al governo Draghi». Ma l'agenda Draghi sarà solo un punto di partenza, precisa Letta, e non il programma di coalizione. «Nel governo di unità nazionale - spiega il segretario dem - c'era anche la Lega e dunque nel programma non c'erano misure che noi avremmo voluto, come per esempio lo ius scholae. Noi vogliamo andare molto più avanti, sul lavoro, sulla giustizia sociale, sulla lotta alle disuguaglianze e sui diritti». Per quanto riguarda le alleanze, Letta dichiara di non voler tracciare confini, e spiega di voler dialogare con Calenda, Renzi, Di Maio e Speranza. E anche con i ministri usciti da Forza Italia che «meritano apprezzamento», aggiunge: «Lo dico anche a coloro che a casa mia storcono il naso». Niente spazio invece per i Cinquestelle. In quel caso «il percorso comune si è interrotto il 20 luglio e non può riprendere, è stato un punto di non ritorno», afferma il leader dem: «Avevo avvertito Conte che che non votare la prima fiducia sarebbe stato lo sparo di Sarajevo».