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La prossima settimana il Parlamento tornerà ad occuparsi della riforma elettorale: un infinito tormentone. Lo farà nel deserto di tentativi seri per trovare un’intesa: i partiti tutt’al più proclamano intenti, e non si è mai visto che da soli questi si trasformino in leggi. Manca la volontà politica, si sarebbe detto un tempo. Non che non sia vero. Pronunciata però oggi, quella frase suona quasi ridicola: un’ammissione di incapacità più che una denuncia.
Del resto lo stato di liquida impotenza cui si assiste non è frutto di un improvviso sussulto. Sono anni, infatti, che Camera e Senato non riecono a produrre un meccanismo di voto strutturale e internamente coeso. Al punto che la Corte Costituzionale è dovuta intervenire più volte per cassare parti delle riforme approvate in quanto contrarie ai dettami della Carta. Eleggere Parlamenti che dovrebbero essere rappresentativi della volontà popolare sulla base di norme incostituzionali è male; dimostrarsi incapaci di affrontare la situazione riparando lacune e insufficienze, è assai peggio.
Se questo è il quadro, il fatto che l’Italia si avvii ad andare alle urne sulla base di sistemi elettorali diversi per Montecitorio e palazzo Madama, due moncherini frutto dei tagli apportari dalla Consulta, non sorpende più di tanto. Ciò che davvero sconcerta, semmai, è che larga parte delle forze politiche ritienga di poter lucrare un tornaconto da questa situazione: come se il pericolo di ingovernabilità che può portare al collasso istituzionale sia elemento trascurabile, da affrontare in un generico “dopo”.
In ogni caso, l’interrogativo è quale possibile scenario consegni per la prossima competizione elettorale una situazione così bloccata. Per tentare di rispondere, è obbligatorio rifarsi quella che un po’ tutti gli osservatori considerano la prova generale della battaglia del 2018: le elezioni regionali in Sicilia. Le specificità dell’isola non possono essere tralasciate e dunque ogni valutazione che allarghi l’orizzonte sul palcoscenico nazionale va fatta usando prudenza e doverosi distinguo. Tuttavia sarebbe impossibile - oltre che fuorviante - non vedere nel modo in cui i partiti si preparano alla scadenza del 5 novembre un laboratorio per equilibri futuri. Il primo e più significativo dato arriva dal centrodestra. Dopo la rovinosa esperienza di Roma, dove Berlusconi rifiutò le proposte del duo Salvini- Meloni e si schierò per un candidato “proprio”, molta acqua è passata sotto i ponti. E si è trascinata appresso la divaricazione tra FI da una parte e Lega e FdI dall’altra. Infatti il centrodestra si presenta con un candidato unico, Nello Musumeci, proveniente dalle fila della destra più tradizionale. Se l’esperimento fosse coronato da successo sarebbe davvero complicato evitare di riproporlo alle elezioni politiche. Di più: rappresenterebbe di fatto una sorta di de profundis per possibili larghe intese Pd- FI. Per un motivo molto semplice. In caso di vittoria, il centrodestra andrebbe al governo e si aprirebbe il duello per la premiership. In caso di sconfitta, se vincessero i Cinquestelle il Carroccio sarebbe tentato di accodarsi mollando Berlusconi. Se invece a prevalere fosse il Pd, magari con l’apporto determinante di Ap, risulterebbe inverosimile un aggancio dell’ex Cav a quel tipo di carovana.
Considerazioni simili valgono per il fronte di sinistra. Lo smarcamento di Alfano è durato poche ore: inevitabilmente il ministro degli Esteri è dovuto rientrare nell’orbita dell’attuale maggioranza di governo. Rischia di pagare un prezzo assai salato in termini di abbandoni, è vero. Ma un ritorno nelle braccia di Berlusconi è impraticabile. Idem per Renzi. I tentativi - d’intesa con l’ex Cav di modificare la legge elettorale innalzando la soglia di sbarramento, sono naufragati. Se aggiungiamo che il leader del Nazareno è il più scettico sulla possibilità di riaprire il capitolo del Consultellum, ne consegue che l’equilibrio raggiunto in Sicilia varrà anche a livello nazionale. Del resto i renziani doc non fanno che ripeterlo: l’obiettivo, fermo restando l’attuale meccanismo di voto, è creare un’amalgama che vada «da Calenda a Pisapia passando per Alfano», come ha ribadito Matteo Richetti.
Il che significa non solo la rottura, che appare prospettiva concreta, tra l’ex sindaco di Milano e gli scissionisti di Mdp ma anche e soprattuto la prefigurazione di un cartello elettorale che unisca Bersani e D’Alema con altri movimenti a sinistra del Pd al fine di superare la barriera del 3 per cento e ottenere rappresentanza parlamentare. Per ultimi i Cinquestelle. Anche i recentissimi anatemi di padri nobili del MoVimento contro la presenza di Luigi Di Maio a Cernobbio al Forum Ambrosetti testimoniano che la scelta di andare da soli all’appuntamento elettorale non ha alternative. I grillini appaiono in calo: non è detto che arrivino primi nelle urne del 2018, il che a risultati acquisiti potrebbe indurli ad ammorbidimenti. Anche perché prima del voto, si gioca un tipo di partita. Una volta chiusi i seggi e registrati i veri rapporti di forza, se ne aprirà un’altra totalmente differente.